La nuova normativa sull'orario di lavoro ha presentato, in questi primi mesi, una evidente criticità nell’applicazione. Appare ormai evidente che, nonostante le promesse di assunzioni di “tremila medici e tremila infermieri”, il personale non aumenterà. Proviamo a fare il punto della situazione delle applicazioni e delle criticità che sono emerse in questi primissimi mesi.
Il riposo giornaliero delle 11 ore è previsto, senza deroghe oggi, dall’articolo 7 del D. Lgs 66/2003 che recita testualmente:
“Ferma restando la durata normale dell'orario settimanale, il lavoratore ha diritto a undici ore di riposo consecutivo ogni ventiquattro ore. Il riposo giornaliero deve essere fruito in modo consecutivo fatte salve le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata o da regimi di reperibilità”.
La durata “normale” (termine da sempre utilizzato nella legislazione quando si riferisce all’orario “ordinario”) è indicata oggi nei contratti collettivi che, come è noto, fissano nelle 36 ore per il personale del comparto e nelle 38 ore per il personale della dirigenza il debito orario settimanale. Il riposo giornaliero, stabilisce la norma, deve essere fruito in modo “consecutivo” all’interno delle ventiquattro ore. La
ratio della norma è evidente e mira al corretto recupero delle energie psico-fisiche del lavoratore attraverso il riposo giornaliero di undici ore consecutive, tese sostanzialmente, attraverso il riposo tramite il sonno notturno o, in caso di lavoratori notturni, il sonno giornaliero. La consecutività delle ore previste ne è la evidente
ratio.
Sono messi al bando, quindi, quei turni che prevedono la mattina e la notte nello stesso giorno, le lunghe guardie che hanno caratterizzato l’organizzazione della dirigenza medica e, in generale, i turni che prevedono l’accoppiata “pomeriggio-mattina” che non prevedono undici ore di distacco tra i due turni.
La norma prevede due eccezioni al principio del riposo giornaliero consecutivo nelle 24 ore di cui il primo – le attività frazionate durante la giornata – originario dell’articolo, mentre il secondo – i regimi di reperibilità – introdotto successivamente. Entrambe, comunque, non previste dalla direttiva europea, ma solo dalla norma di recepimento italiana.
Quindi si può derogare al principio delle undici ore di riposo consecutivo solo in questi due tassativi casi. Quando cioè il lavoro è “frazionato” durante la giornata, tra mattina e pomeriggio (si pensi al lavoro degli amministrativi), o anche a due impegni diversi (esempio attività lavorativa e attività di formazione oppure attività lavorativa e riunione di lavoro) all’interno della stessa giornata. Fermo restando, ovviamente, il limite massimo giornaliero – come vedremo - delle 12,50 ore.
Più complesso il discorso relativo alla seconda eccezione: “i regimi di reperibilità”. La norma introdotta dal ministro Brunetta non brilla per chiarezza. In primo luogo l’istituto si chiama “pronta disponibilità” ed è caratterizzato da un duplice obbligo: l’obbligo della “immediata reperibilità del dipendente” (che sostanzialmente deve mettere a disposizione la propria disponibilità di tempo libero rendendosi sempre reperibile a una eventuale comunicazione da parte del datore di lavoro) e il successivo, obbligo – assolutamente eventuale – di recarsi al lavoro nel più breve tempo possibile secondo accordi sindacali da stipularsi localmente.
Il primo degli obblighi può già esaurire l’istituto della pronta disponibilità che, appunto, nasce per l’incertezza della chiamata. In questo caso il lavoratore è stato in quella condizione che la giurisprudenza chiama “pronta disponibilità passiva”, attività che non può essere equiparata alla reale prestazione lavorativa e che comunque consente al lavoratore – anche in caso di non chiamata ripetiamo – una serie di diritti tra i quali la corresponsione della relativa indennità e il diritto al riposo compensativo laddove il giorno di pronta disponibilità cada nell’unico giorno festivo settimanale.
Diverso è il caso in cui, al primo obbligo caratterizzatosi, come abbiamo precisato, dal mero essere a disposizione del datore di lavoro, segua la chiamata (pronta disponibilità attiva). In questo caso, oltre a essere a disposizione, il lavoratore deve recarsi al lavoro a rendere la prestazione lavorativa. Le ore di lavoro effettuate devono essere retribuite come lavoro straordinario.
Siamo ancora nella eccezione al riposo giornaliero prevista dalla normativa oppure in questo caso si riespande il diritto alle undici ore consecutive di riposo giornaliero? A fronte di una risposta che sembrerebbe scontata – non versiamo più nella mera “disponibilità” ma in una vera e propria prestazione lavorativa – è passata un’interpretazione di natura amministrativa (il Ministero del lavoro nella fattispecie) decisamente curiosa.
La pronta disponibilità, anche quando seguita da vera prestazione lavorativa, come nel caso della pronta disponibilità attiva, sospenderebbe ma non interromperebbe il riposo giornaliero. Quindi, a titolo esemplificativo, turno mattutino-pronta disponibilità notturna-lavoro nel giorno successivo. In caso di chiamata notturna il riposo andrebbe calcolato in modo “frazionato” sommando le ore precedenti alla chiamata a quelle successive alla fine della prestazione lavorativa.
E’ corretta questa interpretazione del frazionamento del riposo giornaliero? Viene indicata dalla stessa lettera della legge o da cosa altro? La norma stabilisce che il riposo giornaliero deve essere fruito in modo consecutivo per 11 ore a eccezione dei regimi di reperibilità per evitare l’indebita equiparazione tra reperibilità pura di carattere “passivo” e la prestazione lavorativa. Il caso prospettato da chiamata è diverso: il lavoratore non versa più nella condizione di essere meramente a disposizione del datore di lavoro, ma pienamente operante nella prestazione lavorativa, per di più disagiata come quella notturna. Più che interpretare la norma qui alla norma si è fatto dire ciò che la norma stessa non dice.
La corretta interpretazione riposa sulla parte precedente non su quella successiva. Quindi tra la fine della prestazione lavorativa e l’inizio della pronta disponibilità non devono intercorrere le 11 ore di riposo giornaliero; in caso di chiamata l’attività prestata interrompe il periodo di pronta disponibilità e fa cominciare la prestazione lavorativa, al termine della quale scatta il periodo di riposo giornaliero. In caso di più chiamate all’interno del periodo di pronta disponibilità, il calcolo del riposo giornaliero scatta dalla fine dell’ultima prestazione lavorativa. Solo in questo modo si garantisce lo spirito della norma con un’interpretazione costituzionalmente orientata sul principio di uguaglianza.
Del tutto invece fuori linea è il disposto contrattuale che prevede la possibilità di svolgere l’istituto della pronta disponibilità per due turni consecutivi (per un totale di 24 ore nei giorni festivi). Tale previsione non è compatibile con il diritto al riposo giornaliero delle 11 ore consecutive.
Il mancato limite diretto alla durata massima di orario di lavoro giornaliero. In molte organizzazioni sanitarie si stanno affermando turni che prevedono l’erogazione della prestazione lavorativa con turni di dodici ore. I turni lunghi trovano la favorevole coincidenza tra la volontà dei professionisti, che vedono in questo modo la possibilità di fruire di più tempo libero a disposizione e le dirigenze aziendali che possono avere a disposizione il lavoratore, quanto meno in alcuni dei giorni liberi, per la copertura di ulteriori turni o guardie, per le attività formative, riunioni ecc.
Questo sta avvenendo, in realtà, perché nell’ordinamento nazionale e comunitario manca un ulteriore indicazione-limite: la durata massima dell’orario di lavoro giornaliero. Per la maggior parte degli interpreti tale limite viene ricavato per “sottrazione”. Vigendo il diritto al riposo giornaliero delle 11 ore, la conseguenza è che sono lecite 13 ore di lavoro consecutivo, temperate dall’obbligo di almeno 10 minuti di pausa dopo sei ore di lavoro ininterrotto.
In realtà questo limite nel diritto del lavoro italiano esisteva ed era ben presente nell’ordinamento lavoristico sin dal 1923. Con il R.D. 15 marzo 1923, n. 692 si stabiliva che la durata massima del lavoro giornaliero era fissata in otto ore a cui si potevano aggiungere due ore di lavoro straordinario. Quindi dieci ore di lavoro giornaliero massimo comprensivo dello straordinario. Norma che riguardava tutto il settore privato.
Ricordiamo che la Costituzione prevede una riserva di legge assoluta sull’orario di lavoro che al secondo comma dell’articolo 36 stabilisce che “la durata massima della prestazione lavorativa è stabilita dalla legge”.
In questo caso le direttive comunitarie rischiano di essere peggiorative della situazione interna previgente. Nella dottrina giuridica (Carabelli U, Leccese V, “L’attuazione delle direttive sull’orario di lavoro tra vincoli comunitari e costituzionali”) si è da tempi non sospetti messo in discussione l’interpretazione dell’individuazione dell’orario massimo giornaliero ricavato per “sottrazione”. Infatti il diritto al riposo giornaliero e la durata massima della prestazione lavorativa giornaliera sono due diritti distinti che assolvono a funzioni diverse. Con il primo si intende sottrarre il lavoratore a un eccessivo carico di lavoro giornaliero e continuativo, mentre con il secondo, di carattere “distanziale”, si mira al recupero delle energie psico-fisiche tra un turno e l’altro. Sempre la stessa dottrina invoca l’intervento della Corte costituzionale con una doppia possibilità: una mera pronuncia “monitoria” per rinviare al legislatore l’individuazione di un vero limite e la pronuncia “secca” di incostituzionalità.
Non vi sono dubbi che il limite delle 13 ore –
rectius 12,50 ore – così ricavato sia non soltanto una aporia tra le tante che possiamo trovare, ma anche una condizione peggiorativa rispetto alla normativa previgente non solo alla direttiva comunitaria ma addirittura rispetto alla Costituzione repubblicana (quanto meno per il lavoro privato).
Vi è da domandarsi, inoltre, se tale interpretazione sia corretta anche alla luce della sopravvenute normative indicate dalla legge di stabilità 2016. All’articolo 1, comma 538 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 leggiamo testualmente:
“La realizzazione delle attività di prevenzione e gestione del rischio sanitario rappresenta un interesse primario del Sistema sanitario nazionale perché consente maggiore appropriatezza nell'utilizzo delle risorse disponibili e garantisce la tutela del paziente.”
La garanzia della tutela del paziente, è tautologico affermarlo, è un obiettivo immanente del Servizio sanitario nazionale che deve apprestare tutta l’organizzazione alla prevenzione dei rischi per non esporre il paziente a danni. Questo dovrebbe essere da sempre una sorta di imperativo categorico per ogni organizzazione sanitaria in ossequio al brocardo ippocratico “
primum non nocere” e oggi in seguito alle disposizioni della legge di stabilità 2016 che pone come obiettivo proprio la sicurezza del paziente.
E’ lecito porsi il dubbio se i turni lunghi di dodici ore e più siano compatibili con la norma della legge di stabilità e con le dichiarate esigenze di tutela del paziente. I turni di dodici ore sono compatibili con questo dichiarato obiettivo? La domanda è talmente retorica che si impone la risposta negativa.
Non sono compatibili per motivi che potremmo assumere come notori (in diritto il fatto notorio è quello totalmente acquisito e conosciuto da apparire assolutamente certo senza bisogno di ulteriore dimostrazione) se è vero, come è vero, che è stato spiegato direttamente dal ministero in un fortunato (dal punto di vista dei numeri) corso Fad – svolto in collaborazione con Fnomceo e Ipasvi – dal titolo “
Sicurezza dei pazienti e gestione del rischio clinico. Manuale per la formazione degli operatori”, in cui, tra i fattori “organizzativo-gestionali” che producono errori si inseriscono anche – potrebbe essere altrimenti? – i carichi di lavoro e i turni che “concorrono a determinare fatica e stress”. Estendere al massimo possibile il turno di lavoro, ai limiti dell’orario ricavato per “sottrazione”, renderlo il più gravoso possibile, non rispetta le indicazioni della necessità di prevenzione dei rischi richiesti dalla legge di stabilità e dall’etica medica tradizionale.
Potrebbero, da questo punto di vista, avere un ruolo, ma non lo hanno, anche i codici deontologici. Il codice di deontologia medica dedica un articolo “alla sicurezza del paziente e alla prevenzione del rischio clinico” e ha modo di precisare, all’articolo 14 (Fnomceo, 2014) che il medico, deve “contribuire all’adeguamento dell’organizzazione sanitaria” per la prevenzione dei rischi. Non molto in realtà.
Il codice deontologico della Federazione Ipasvi (2009) non sembra contenere – la lettura del codice non è agevole in quanto capi e articoli sono stranamente non rubricati – norme richiamabili da questo punto di vista e questo appare curioso in quanto il codice Ipasvi contiene anche norme di natura aziendalistica – come il discusso articolo 49 – non presenti in altri codici. Anche il codice della Federazione delle ostetriche non sembra contenere articoli di riferimento.
Altra questione: i turni di dodici ore consecutive sono da considerarsi turni di lavoro ordinario, oppure, turni combinati di una parte di lavoro ordinario e una parte di lavoro straordinario? Non facciamo riferimento al limite dell’orario 8+2 previsto dal R.D. del 1923, che evidentemente distingueva un orario da considerarsi normale da un orario successivo da considerarsi straordinario, ma alla necessità di comprendere a quale titolo e come gestire proprio la presenza in servizio, a fronte di un ordinamento giuridico del pubblico impiego che prevede ordinariamente la settimana lavorativa su cinque o su sei giorni.
Le dodici ore, infatti, mal si conciliano con la fruizione degli istituti contrattuali che sono proprio pensati per l’articolazione su 5 o 6 giorni. Pensiamo alle ferie, ai permessi retribuiti, alle assenze per lutto, ai permessi ex legge 104 ecc. in una articolazione oraria sulle 12 ore di turno la richiesta di un giorno di ferie cosa comporta? L’assenza dal giorno lavorativo e il conteggio di un giorno di ferie? Il conteggio di due giorni di ferie di cui uno meramente virtuale? Cosa accade in caso di malattia? Con un giorno di prognosi si copre l’intera giornata di dodici ore lavorative? Cosa accade alla corresponsione delle indennità che prevedono la presenza giornaliera? Vengono dimezzate nel corso del mese, con perdita di retribuzione?
Si potrebbe ipotizzare la soluzione accolta, in un caso specifico, dalla Corte di cassazione in una recente pronuncia. Il turno sulle 12 ore sarebbe una sorta di turno virtuale costruito sulla base di sei giorni lavorativi a cui si aggiungono ore di lavoro straordinario da recuperarsi nei giorni successivi (c.d. “riposi compensativi). Questa articolazione permetterebbe la fruizione delle indennità giornaliere, ma costringerebbe a estendere i giorni di malattia a quelli che appaiono come giorni liberi. Inoltre il rischio del vaglio della Corte dei Conti sarebbe elevato per la corresponsione di indennità su turni virtuali.
Altro problema irrisolto: la corretta fruizione della pausa. I turni di dodici ore, quanto meno nell’articolazione diurna, prevedono la pausa mensa. E’ correttamente fruibile? Uscire da un reparto o servizio, timbrare l’uscita, rientrare in servizio. La copertura del servizio ne risente? E’ una mera pausa fittizia e quindi non concretamente fruibile? Le risposte sono difficili da dare le soluzioni, spesso, impossibili.
I turni di dodici ore appaiono una forzatura questo è evidente e creano una serie di problemi applicativi oltre che, come abbiamo visto dubbi di legittimità in base alla legge ordinaria e costituzionale.
Ultimo, ma non ultimo, il riferimento alla sicurezza sul lavoro.
E’ stato ricordato che compete al datore di lavoro – attività non delegabile – la stesura del Documento di valutazione dei rischi e la relativa prevenzione, già oggi, dai dati pubblicati molto difficile.
Il calcolo della decorrenza dell’inizio della prestazione lavorativa. Appare invece del tutto ragionevole l’interpretazione di parte ministeriale sulla decorrenza dell’inizio della prestazione lavorativa che altro non può partire dall’orario ufficiale e non dalla timbratura in servizio. Quindi l’intervallo di lavoro comune a molte organizzazioni sanitarie 20-07 appare rispettoso del riposo giornaliero e del tutto di buon senso è l’indicazione di rendere neutra la timbratura prima della effettiva prestazione lavorativa, al netto ovviamente, del c.d. “tempo tuta” (in sanità “cambio divisa”) riconosciuto ormai universalmente dalla giurisprudenza.
Il problema della libera professione. Si è aperta una discussione sulla questione della libera professione della dirigenza medica e delle altre figure dirigenziali, nonché dell’attività di supporto alla libera professione prestata dai professionisti del comparto.
Per capire se la libera professione rientri, o possa rientrare, nei limiti stabiliti dal D. Lgs 66/2003 possiamo ipotizzare due interpretazioni: una restrittiva e una estensiva. Quanto meno nella condizione data
de jure condito.
L’ipotesi di interpretazione restrittiva pone le sue basi proprio sulla natura dell’attività libero professionale che viene svolta, come più volte recita l’art. 15-quinques del D. Lgs 502/1992 (testo vigente) “al di fuori dell’impegno di servizio”. Si tratterebbe quindi di libera professione non vincolata dalle normative comunitarie con la conseguenza che l’attività non sia conteggiabile nel riposo giornaliero, nei limiti di lavoro giornalieri, nei limiti settimanali ecc.
L’ipotesi di interpretazione estensiva poggia invece le sue basi su una interpretazione che parte dal combinato disposto della normativa europea e delle indicazioni che abbiamo già visto nella legge di Stabilità 2016. Diventerebbe curioso che il medico debba avere il diritto al riposo giornaliero per l’attività istituzionale e, in tale periodo di riposo, svolgere un’altra attività lavorativa della stessa natura di quella istituzionale. Il corollario di questo assunto sarebbe la probabilità di un medico stanco o deprivato dal sonno nell’attività libero professionale ma riposato nell’attività istituzionale.
Diventerebbe il più potente argomento di abolizione della libera professione in quanto attività di minore qualità rispetto a quella istituzionale in cui è accettabile avere un professionista più stanco. A ben vedere si potrebbe verificare il contrario: un medico che protrae la propria prestazione lavorativa libero professionale e non avere i giusti tempi di recupero per l’attività istituzionale, venendo meno alle esigenze di tutela della salute e della prevenzione del rischio clinico imposte dalla recente legge di Stabilità.
Da qualunque parte la si veda la libera professione cade in contraddizione con gli aspetti sopra riportati e, se non si riesce a risolvere a livello interpretativo, diventa indispensabile un intervento
de jure condendo del legislatore nazionale o, al più, a livello contrattuale (pressoché impossibile vista l’opposizione dei sindacati della dirigenza medica).
Di minore entità e importanza invece il problema della libera professione del comparto in appoggio a quella medica che pone però gli stessi identici problemi. I numeri però sono decisamente inferiori, fatti salvi i comparti operatori e di alcune diagnostiche.
Conclusioni. La carenza di personale che si fa più pressante ogni giorno ha portato le organizzazioni sanitarie a estremizzare alcuni istituti giuridici e contrattuali – come la pronta disponibilità e l’estensione dell’attività lavorativa nei turni di 12 ore continuativi – con la dichiarata finalità di riuscire a coprire turni e guardie, altrimenti non possibile.
E’ curioso notare come un diritto sacrosanto, come quello legato al riposo giornaliero, abbia provocato timori, insoddisfazioni, rimpianti verso il passato senza quel diritto. Ne troviamo anche una testimonianza “letteraria”. In un recente volume scritto da Henry Marsh (noto neurochirurgo inglese, Ponte alle Grazie, 2015), “Primo non nuocere”, l’autore ricorda gli anni novanta dello scorso secolo:
“Era il periodo in cui il governo aveva iniziato a ridurre il lungo orario di lavoro dei medici ospedalieri. I medici erano stanchi e stressati e i medici correvano seri rischi. I medici interni tuttavia anziché diventare sempre più affidabili ed efficienti, visto che potevano dormire di più, si mostravano sempre più scontenti e demotivati”.
Marsh se lo spiega con la perdita di identità del medico che il medico acquisiva con le lunghissime guardie i lunghissimi turni di lavoro. In Italia medici autorevoli hanno paventato rischi per la salute degli ammalati arrivando a dimostrare una concezione premoderna dei rapporti di lavoro: “Non penso che debba stabilirlo la legge quanto si può o si deve lavorare” -
Giuseppe Remuzzi,
Corriere della Sera, primo novembre 2015 o chi addirittura trova normale lavorare 80 ore settimanali (!) (
Gregorio Maldini).
Non sono tutte state di questo tenore sconcertante le reazioni e si deve ringraziare un articolo informato e intelligente di
Carlo Palermo che, dati di evidenza scientifica alla mano, ricorda gli effetti nefasti dell’agire professionale di un medico deprivato dal sonno.
Diverse sono invece le motivazioni – più sotterranee – addotte dai professionisti del comparto. Ne ho testimonianze quotidiane nella mia attività. Il diritto al riposo giornaliero ha spesso diluito le prestazioni lavorative comprimendo i giorni completamenti liberi. La vita privata diventa difficilmente compatibile con una turnazione che prevede una presenza che, spesso a stento, riesce a garantire il solo giorno settimanale libero. L’impossibilità di comprimere i turni per il rispetto del riposo giornaliero ha, talvolta, come abbiamo visto, come effetto l’ulteriore difficoltà di fruire di permessi, giorni di ferie, partecipare ad attività formative, riunioni ecc.
Ecco allora che lo spettro dei turni di 12 ore si fa strada. Turni non consentiti nell’Italia degli anni venti del novecento diventano la soluzione dei problemi. L’utilizzo stravolto dell’istituto della pronta disponibilità trova oggi spazio.
Tutto questo è il frutto nefasto del blocco del personale che perdura da troppi anni e la pessima soluzione del non finanziamento per le assunzioni promesse nella legge di stabilità 2016 non potrà che aggravare la situazione.
Solo un cospicuo numero di assunzioni di personale sanitario possono risolvere seriamente il problema.
Luca Benci
Giurista