La discussione sulla regolamentazione per legge del c.d. “atto medico” si è intensificata negli ultimi mesi a causa della discussione apertasi dopo l’apertura del “comma 566” della legge di stabilità 2015 e della proposta dell’onorevole D’Incecco, inizialmente presentata come “proposta del Pd” e che ora sembra godere dell’appoggio anche della Federazione nazionale degli ordini dei medici oltre che di alcune sigle dei sindacati della dirigenza medica.
Prima di analizzare quale possa essere l’impatto dell’atto normativo – ovviamente se approvato – può essere utile fare il punto della situazione della normativa vigente in merito all’attività medica.
La necessità di definire (o delimitare) l’attività medica è recente e trova una sua prima definizione nella legge 26 febbraio 1999, n. 42 “Disposizioni in materia di professioni sanitarie”. Come è noto l’articolo 1 della legge 42 ha posto come “criterio limite” dell’attività delle professioni sanitarie “le competenze previste per le professioni mediche”. In assenza di definizioni contenute nel diritto positivo sono state ipotizzate due interpretazioni delle “competenze” mediche. Nel nostro ordinamento la prima interpretazione che si opera su un testo normativo è quella letterale e i vari interpreti si cono concentrati proprio sul termine “competenza”.
La prima interpretazione letterale dell’attività medica – delle competenze appunto – è stata quella relativa allo stabilire l’equivalenza di competenza come “compito”, la seconda è stata relativa all’equivalenza della competenza come “capacità”.
Nell’interpretazione competenza come compito (o come “pertinenza”, Rodriguez 1999) diventa necessario individuare le fonti normative di diretta attribuzione alla figura medica di determinate attività. La seconda individua le attività mediche in relazione al loro livello di complessità sanitaria: un’attività diventa/è/resta medica quando è necessario il sapere medico, la sua alta formazione, il suo patrimonio di esperienza per svolgere una determinata attività. Si è più volte discusso se l’interpretazione più confacente allo spirito della norma fosse la prima o la seconda.
Una riflessione più matura ci porta a riconoscere che l’interpretazione più corretta sposi il criterio misto: un’attività può essere “esclusivamente” medica in quanto direttamente attribuita dall’ordinamento giuridico al medico – es. la prescrizione farmacologica – mentre per altre attività – la gran parte – l’attività medica coincide con la capacità a porre in essere attività sanitarie. Bisogna capire se le attività mediche siano solo ed esclusivamente quelle “alte” (senza dare connotazioni positive o negative a questo termine) oppure siano anche quelle “alte”.
Dato che la norma è contenuta nella legge di riordino complessivo delle professioni sanitarie dovremo arrivare alla conclusione che l’attività esclusiva delle “competenze” mediche altro non possa essere che quella “alta”. La questione – sul punto – non è del tutto pacifica in quanto la giurisprudenza della Corte di cassazione,
sul punto non si è espressa univocamente.
Su questo impianto normativo si è inserito il “comma 566” della legge di Stabilità (legge 190/2014) che, in relazione al nuovo atto per definire altre competenze, pone al primo punto una sorta di definizione embrionale, non voluta e incidentale di attività medica: gli “atti complessi e specialistici di prevenzione, diagnosi, cura e terapia”.
Non vi sono dubbi che il legislatore abbia voluto precisare l’invalicabilità delle attività da parte di altre professioni sugli “atti complessi e specialistici”. Lunga e animata è stata la discussione sui criteri di individuazione degli “atti complessi e specialistici” e, soprattutto, se i restanti atti, non complessi e non specialistici, siano da ricondursi alla esclusività medica oppure siano condivisi con le altre professioni sanitarie.
L’interpretazione più immediata non può che portare all’esclusione del riconoscimento di attività “esclusiva” – termine caro alla Corte di cassazione per il riconoscimento dell’esercizio abusivo della professione medica – in quanto posto come nuovo limite in luogo delle più ampie competenze previste per le professioni mediche ex legge 42/99”. Il “comma 566” apre dunque – anche lessicalmente – agli atti non complessi e non specialistici di prevenzione, diagnosi, cura e terapia effettuabili dalle professioni sanitarie.
Si tratta di un’apertura importante per l’ordinamento giuridico ma, al momento, senza conseguenze: senza l’atto concertativo e il suo recepimento dalla Conferenza Stato Regioni, infatti, il regime giuridico di abilitazione all’esercizio professionale rimane quello precedente regolato dalla legge 42/99. Questa apertura ha portato alla forte opposizione della parte medica.
Viene spesso, inoltre, evocato il codice di deontologia medica
come unico atto regolatore dell’attività medica. Il codice deontologico è, lo ricordiamo un atto normativo, non giuridico, di diretta emanazione della rappresentanza istituzionale della professione medica. La più recente versione (Fnomceo 2014) ha prodotto una definizione di attività medica e ha cercato di porre dei paletti normativi.
Vi è da domandarsi, in primo luogo, se il codice deontologico sia un luogo idoneo per una definizione che, laddove si ritenga opportuno cristallizzarla, spetti in modo naturale al legislatore. In altre parole, può un atto proveniente da una categoria professionale normare in modo unilaterale una materia che riguarda anche altre categorie ed è inerente al diritto costituzionale alla salute? La domanda è retorica e la risposta non può che essere negativa.
Per antica, autorevole e non contestata dottrina medico legale (Benciolini, 1999) i codici deontologici contengono norme sostanzialmente rapportabili a quattro categorie:
a) norme deontologiche rapportabili a precise previsioni di legge: rafforzano e integrano precetti legislativi;
b) norme di natura puramente etica;
c) norme di natura strettamente deontologica (es. “i rapporti con i cittadini”, “i rapporti con i colleghi”);
d) norme di natura disciplinare.
Una definizione di “atto medico” esce dalle quattro tipologie sopra riportate e prova a presentarsi come supplenza di supposte carenze legislative. Luogo improprio, quindi, per norme definitorie di ambiti professionali.
Il codice di deontologia medica (Fnomceo, 2014) all’articolo 3, rubricato come “Doveri generali e competenze del medico” individua l’esercizio professionale del medico, nell’ambito delle competenze, definendole “
specifiche ed esclusive”, riconducendole alla formazione ricevuta, alle conoscenze della medicina, alle abilità tecniche e non tecniche, alla pratica professionale e alle innovazioni organizzative e gestionali in sanità. I riferimenti si chiudono con l’insegnamento e la ricerca. Il riferimento a tali pratiche, che abbiamo visto autodefinirsi “specifiche ed esclusive” (formula usata dalla Corte di cassazione e dalla dottrina giuridica per il reato di esercizio abusivo della professione) è di carattere generale e non tocca i rapporti con le altre professioni visto che tale formulazioni può essere adottata da qualunque altra professione sanitaria.
Diverso è il discorso sulla diagnosi che, a “fini preventivi, terapeutici e riabilitativi,
viene definita come una diretta, esclusiva e non delegabile competenza del medico e impegna la sua autonomia e responsabilità” e sulla prescrizione definita in modo similare.
In questo caso il codice di deontologia medica tenta di blindare i tradizionali ambiti di competenza medica, alcuni dei quali, sono superati da molti lustri, in alcune attività: la somministrazione di farmaci in protocolli di emergenza sono realtà dal 1992 nell’ordinamento giuridico italiano e curiosamente quindi il codice di deontologia medica pone delle disposizioni
contra legem nel proprio articolato, quando al massimo può porle
secundum legem.
E’ stato acutamente notato che non vi è corrispondenza concettuale fra le “attività basate sulle competenze, specifiche ed esclusive” dell’art. 3 del codice di deontologia medica e gli atti complessi e specialistici del comma 566. Anche se poi lo stesso autore minimizza eccessivamente la portata del “comma 566” arrivando a affermare che le competenze dei medici “attengono a tutti gli atti” e non solo a quelli complessi e specialistici. Non si vede, a questo punto il motivo, di tutte le polemiche e, soprattutto, non si comprende la ratio della norma del comma 566.
La proposta di legge dei deputati del Pd, c.d. proposta “D’Incecco” (inserire link con allegato) dal nome del suo primo proponente, viene presentata come recepente il codice di deontologia medica e denominata “Disposizioni in materia di definizione dell’atto medico e di responsabilità professionale medica” (Atto Camera 2988 del 25 marzo 2015).
La proposta di legge si compone di soli tre articoli – per altro, per motivi non chiari, non rubricati – dove al secondo comma dell’articolo 1 si afferma che “L’atto medico è una responsabilità del medico abilitato e deve essere eseguito dal medico o sotto la sua diretta supervisione o prescrizione”. La prima considerazione che possiamo fare della proposta dei deputati del Pd è relativa all’estensione, non della definizione di “atto medico” bensì delle sue modalità di attuazione che vedono la diretta effettuazione del medico di tali atti o eseguiti “sotto la sua diretta supervisione o prescrizione”.
Da questo punto di vista, la proposta “D’Incecco”, si presenta giuridicamente sgrammaticata in quanto individua una attività “esclusiva” ma ne permette l’esecuzione sotto “supervisione”. Decine di sentenze hanno sanzionato professionisti che si avvalevano di “collaboratori” che agivano sotto “supervisione”: si pensi al più tradizionale ambito dell’abusivismo sanitario: l’abusivismo odontoiatrico. L’odontotecnico o l’igienista dentale che esorbita i propri limiti e che agisce in uno studio dentistico commette esercizio abusivo della professione e, con lui, il professionista abilitato.
Diverso è, invece, l’agire professionale dietro prescrizione. Come è noto la prescrizione medica può essere farmacologica o di trattamento. La prima è normata precisamente e la recente giurisprudenza della Cassazione
conferma orientamenti consolidati. La seconda – prescrizione di trattamento - presenta tratti incerti e, anche in questo caso, è spesso regolamentata da norme delle professioni dei profili eccezion fatta per la prescrizione radiologica che vede un medico prescrittore e un medico “giustificatore” come il medico radiologo (ma qui versiamo in una atto medico specialistico).
La prescrizione di trattamento è variegata e non riconducibile a unità. A titolo esemplificativo la prescrizione di medicazioni, la prescrizione di fisioterapia, la prescrizione di regimi dietetici ecc.
In questi casi sono proprio i profili professionali a porre dei limiti all’ampiezza della prescrizione. Sempre a titolo di esempio: il fisioterapista agisce “in relazione alla diagnosi e alla prescrizione del medico”. La prescrizione, in questo caso, non ha la cogenza delle altre prescrizioni e lascia spazio al fisioterapista di muoversi con tutta la sua professionalità. Inoltre il livello di dettaglio della prescrizione non deve essere tale da ledere le prerogative del fisioterapista che si sostanziano nell’elaborazione del “programma di riabilitazione” che non può essere ridotto alla mera esecuzione della dettagliata prescrizione medica.
L’articolo 3 della proposta D’Incecco attribuisce al medico “la titolarità e la responsabilità di tutte le decisioni relative alla salute del paziente” che porta, non il medico ma il sistema, ad essere non tanto “medico-centrico” quanto piuttosto “medico-dipendente”. Le lancette dell’orologio tornano indietro al lontano 1994, anno di emanazione dei principali profili professionali. Se al medico spettano “tutte le decisioni” relative alla salute dei pazienti questa disposizione porta a una abrogazione implicita del sistema dei profili professionali e della legge 42/99 soprattutto nella parte in cui la competenza viene declinata come capacità.
L’abrogazione implicita – per
jus supervenies – determinerebbe una immediata lacuna normativa non riempibile altrimenti che non attraverso la reviviscenza delle normative ante/legge 42/99 e quindi, per le professioni che ne erano provviste, del sistema dei mansionari. Banalmente non avrebbe più diritto di cittadinanza quella parte del profilo dell’infermiere che attribuisce a questa figura professionale “l’individuazione dei bisogni,”, la pianificazione”, la “gestione e la valutazione dell’intervento assistenziale infermieristico. Se ogni intervento sulla salute del paziente è medico, anche l’intervento assistenziale infermieristico, in quanto incidente sulla salute del paziente, deve essere ricondotto alla potestà medica.
Vi è infine da domandarsi gli effetti che potrebbe avere sul “comma 566” della legge di Stabilità, sempre in assenza di una abrogazione esplicita. Vi è cioè da domandarsi se il “dimagrimento” delle competenze mediche limitate alle attività complesse e specialistiche in materia di prevenzione, diagnosi, cura e terapia” si riespanda di fatto anche alle attività non complesse e non specialistiche. Anche in questo caso la risposta non può che essere positiva e allargata – non potrebbe essere altrimenti – alla “attività sanitaria” in generale e non solo all’attività medica.
Da un punto di vista della responsabilità professionale è ben intuibile che ben poco cambi vista la continua trascuranza della normativa di settore sulle sentenze di responsabilità professionale dove si citano apoditticamente compiti e funzioni che non hanno alcun riscontro nel diritto positivo vigente attraverso il grimaldello della “posizione di garanzia” (
vedi 1,
vedi 2).
L’ultima parte del primo comma dell’articolo 3 della proposta D’incecco attribuisce, sempre alla professione medica, “la conseguente e necessaria unitarietà dei percorsi clinico-assistenziali che esse comportano e i correlati assetti organizzativi”. Qui si pongono le basi per una sostanziale abrogazione implicita della legge 251/2000 facendo ricadere tutta l’organizzazione in mano alla dirigenza medica in nome della necessaria unitarietà dei percorsi clinico assistenziali”.
La recente sentenza del Tar del Lazio link sembrerebbe dare ragione a questa impostazione. In realtà di giudici amministrativi romani sono intervenuti su un atto normativo (non scritto bene) equivocando e confondendo tra la “gestione del personale” con “la linea assistenziale”. Il Tar del Lazio, in questa sentenza, si è comportato come fosse un giudice supremo, di ultima istanza, evitando di citare il diritto positivo vigente, e motivando con una sorta di buon senso non informato.
Per il ricorso al Consiglio di Stato serviranno giuste parole e giuste intelligenze per non creare l’effetto del “precedente” che rischierebbe di danneggiare gravemente le più avanzate organizzazioni di questo paese. Su questo specifico argomento mi riprometto di tornarci sopra a breve.
La proposta D’Incecco si presenta, insomma, come un enorme pasticcio giuridico dagli effetti non direttamente calcolabili in termini di ricadute nell’ordinamento e nell’organizzazione.
Luca Benci
Giurista