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QS Edizioni - sabato 23 novembre 2024

Lavoro e Professioni

Il nuovo Codice deontologico dei medici. Basterà per affermare la titolarità del medico?

di Ivan Cavicchi
immagine 31 maggio - Oggi la titolarità o la centralità, che dir si voglia, non passa per le competenze, comunque ribadite dagli ordinamenti e comunque oggetto di forti conflitti tra le altre professioni, e meno che mai passa  per il codice che resta norma secondaria e volontaria. Oggi secondo me, se puntiamo a risolvere “la questione medica”, la titolarità passa per altre strade (terza e ultima parte)
La deontologia  (professional ethics) riguarda i comportamenti degli operatori e quindi le facoltà, i doveri e le responsabilità proprie ai loro status professionali. Essa rientra in quel genere di etiche definite “secondo il ruolo”, e che definiscono la famosa “identità professionale” con due funzioni:
· per la società indica i doveri da attribuire ad una professione,
· per gli operatori indica delle regole da seguire  per risolvere i loro  problemi pratici.
 
Abbiamo visto nel primo articolo che oggi, con buona pace di Kant, i “principi” non bastano a definire un’etica professionale. Oggi i codici deontologici in ragione dei problemi pratici che hanno gli operatori sono sollecitati a regolare i  comportamenti professionali sulla base delle utilità, come le chiamava Bentham, (Deontology or scienze of morality 1834), nel senso che la misura etica degli atti professionali si dovrebbe basare sul “valore effettivo” che questi hanno di promuovere utilità per i malati per gli operatori. Oggi in sanità le utilità da promuovere sono tante, comprendono cioè tutto ciò che concorre alla cura e alla produzione di salute. Il compito della deontologia (letteralmente “ciò che si deve fare”) è assicurare in base ai risultati di utilità auspicati una linea di condotta professionale pertinente con la realtà medico-sanitaria. Un codice se non è pertinente con i problemi pratici dei medici e dei malati non produce utilità, cioè  è inutile.
 
Oggi “ciò che si deve fare” per un operatore dipende molto da “ciò che l’operatore può fare” quindi da come è formato, da come è organizzato, dai rapporti con le altre professioni, dai metodi che usa, dai contesti in cui lavora, dai limiti che lo condizionano, dal genere di malato che ha di fronte. “Ciò che si può fare” dipende pragmaticamente da “ciò che si è in grado di fare” per cui la deontologia non è più  “ciò che si deve fare”, cioè quella che si deduce dai principi di etica medica (art. 1) ma diventa la condizione di base per indicare “ciò che si potrebbe fare se...”...”se....il codice fosse pertinente con la realtà....allora il medico  potrebbe.....”. Cioè la deontologia che oggi ci serve non è quella che ci propone il codice, ma quella nuova delle utilità e dei condizionali. La deontologia è la prima utilità e il primo condizionale per la professione. “Condizionale” in termini pratici vuol dire che un medico è relativo a ciò che lo esprime e lo permette.
 
Ciò che esprime il medico nel codice abbiamo visto è vecchio e retroverso per cui l’aggiornamento per questo codice consiste nell’aggiungere al vecchio solo qualcosa di più, di ribadire qualcosa che è a rischio, di difendere delleprerogative. Ma se nel terzo millennio vale la logica condizionale  “il medico sarebbe  tale  se..”. come si fa  a riproporre quella del secondo millennio, il “medico è  in quanto tale”?
 
Il codice aggiunge alla sua edizione precedente delle pseudo novità come la medicina militare, la medicina potenziativa  e la cui logica sarebbe discutibile (non si capisce perché altri settori della medicina ad alta complessità che operano sui fronti deontologici estremi, come ad esempio l’oncologia, non trovino specifica  menzione), ma la vera operazione che esso compie quasi in maniera  ossessiva è ribadire la titolarità del medico attraverso l’attribuzione delle “esclusive  e specifiche competenze” (articoli 3,11,13,44) come se questa titolarità fosse in pericolo.
 
Ma oggi la titolarità o la centralità, che dir si voglia, non passa per le competenze, comunque ribadite dagli ordinamenti e comunque oggetto di forti conflitti tra le altre professioni, e meno che mai passa  per il codice che resta norma secondaria e volontaria. Oggi secondo me, se puntiamo a risolvere “la questione medica”, la titolarità passa per altre strade:
· per una idea nuova di professione,
· su una idea nuova di autonomia e di responsabilità più che di centralità, 
· e su nuovi rapporti cooperativi tra autonomie con le altre professioni.
 
Cioè passa per “l’autore”, cioè per un altro genere di medico, che non difende strenuamente l’esclusività delle sue  competenze nei confronti del mutamento che l’assedia, perché la deontologia non è “Fort Apache” e il mutamento non è   “Cochise” e i suoi indiani. “Repetita iuvant”  va bene ma dal punto di vista pratico non serve molto ribadire, mentre tutto è in discussione, le norme degli ordinamenti sulla titolarità delle competenze, serve semmai ripensare gli ordinamenti che ormai fanno acqua da tutte le parti (Benci QS 28 maggio).
 
Ribadisco quindi l’imprescindibilità della coevoluzione delle professioni. Colpisce che nel momento in cui una storica divisione del lavoro e una storica forma di cooperazione tra professioni,  in via irreversibile di ridiscussione grazie alle riforme che altre professioni hanno introdotto nei loro ordinamenti professionali, che il codice dedichi ai rapporti intra e interprofessionali tra “colleghi” ben due titoli (10,12) mentre ai rapporti con le altre professioni uno striminzito articolo di circostanza (art. 66). Questo è un altro esempio di come il codice sia retroverso e quindi poco pertinente con la realtà che muta.
 
Infine c’è un altro aspetto del codice che vale la pena di considerare e cioè i rapporti tra deontologia e epistemologia. Se la prima è “ciò che si deve fare” la seconda è “come fare ciò che si deve fare”. Se il medico, come dice il codice, è l’insieme delle sue competenze (art. 3) il problema di come il medico usa le competenze è un problema epistemologico.
 
Il codice ispirandosi alla logica del restyling e non a quella del rebuilding, anche in questa circostanza è indubbiamente regressivo. I fenomeni che ho riassunto con l’espressione “questione medica” oltre che porre problemi deontologici pongono anche grossi  problemi epistemologici. Ma il codice nei loro confronti si mostra incomprensibilmente  indifferente. Esso si limita a richiamare logore epistemologie “basate” sulle evidenze scientifiche disponibili, sull’uso ottimale delle risorse, sull’efficacia clinica tenendo conto “delle linee guida diagnostiche terapeutiche”, dei “protocolli diagnostico-terapeutici” e dei “percorsi clinico-assistenziali” (art.13) ignorando che, soprattutto grazie all’idea di “malato complesso” e alle contraddizioni economiche che certo evidenzialismo ha provocato, le linee guida, l’Ebm, e tutto il resto sono di fatto in ridiscussione (invito a leggere su QS del 27 maggio l’articolo di Pani  e Vasta sui limiti  dell’Ebm in rapporto agli studi clinici randomizzati, ma anche, mi sarà consentita una piccola rivalsa, il mio saggio sull’Ebm di ben 14 anni fa pubblicato in “La medicina della scelta”). 
 
Non si tratta sia chiaro di mandare al macero le procedure basate sull’evidenza ma di accettare l’idea che il proceduralismo al quale esse si ispirano non è più considerato, per fortuna, una garanzia assoluta di pertinenza clinica. 14 anni fa, attaccato come un eretico da tutte le parti, io sostenevo questo e oggi finalmente grazie alla presa di coscienza sulla complessità in gioco ho la soddisfazione di vedere che l’epistemologia nella realtà clinica si sta spostando, come io proponevo, sempre di più dal valore della “procedura” alla capacità e alla abilità, alla ragionevolezza, di chi procede. Insomma la tendenza è rimettere al centro, di nuovo, il soggetto che opera quindi dell’autore e dell’agente.
 
Del resto se le relazioni, come io credo non sono solo banalità deontologiche ma nuovi modi epistemologici  per  conoscere, giudicare, agire, come si  fa a non ridiscutere la vecchia epistemologia proceduralista fondata sulla negazione  delle relazioni? A questo proposito nel codice vi è una contraddizione esemplare, tra art. 13  e art. 15 cioè tra un articolo che subordina tutte le pratiche mediche alle evidenze scientifiche disponibili, e un articolo che dà la possibilità  al medico di praticare “la medicina  non convenzionale” ma senza sottoporla al vincolo delle evidenze scientifiche disponibili per vincolarla unicamente al rispetto del  “decoro e della dignità del cittadino”. Da sempre sono convinto che   disporre di più scuole di medicina sia una ricchezza, faccio solo notare che:
· se vale l’art. 13 le medicine complementari non essendo validate dalle classiche evidenze  scientifiche non dovrebbero essere accettate,
· se vale l’art. 15  è inutile scrivere  l’art. 13 perché le medicine complementari hanno altri generi di evidenze.
 
Come uscire dalla contraddizione? Semplice: se il codice accoglie come è giusto che faccia le medicine non convenzionali ne deve accettare anche le loro rispettive epistemologie  (olistica,  relazionale, personalizzata, biotipale,  ecc.). In questo caso l’art. 13  dovrebbe, oltreché riferirsi alle evidenze scientifiche, accogliere anche altri generi di evidenze...come ad esempio quelle relazionali e ricomporre a beneficio del malato una epistemologia molto più ricca.
 
Concludendo: per quanto riguarda il discorso delle utilità e dei condizionali deontologici di una eventuale professional ethics, e la necessità di ridefinire coevolutivamente le autonomie delle professioni e i loro rapporti, e infine le questioni epistemologiche, il codice all’analisi risulta contraddittorio regressivo e per questo non pertinente.
 
(Fine terza e ultima parte. Vedi la prima e la seconda parte del commento)
 
Ivan Cavicchi
31 maggio 2014
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