L’ultimo episodio rilevante è di qualche settimana fa. Il presidente dell’Ordine dei medici di Bologna, Giancarla Pizza, presenta un
esposto alle Procure di Bologna e Firenze per denunciare alcuni progetti sperimentali (accomunati dalla formula “See & Treat”, che sta a significare intervento immediato, senza rinvii ad altri) avviati in Emilia Romagna e in Toscana e che, a suo parere, si muovono in direzione di “un inattuabile coinvolgimento dell’infermiere con responsabilità a carico del medico”. La risposta ufficiale della Federazione dei Collegi infermieristici Ipasvi è misurata ma decisa. Con un comunicato stampa diffuso al termine di una riunione dei vertici nazionali Ipasvi si sottolinea come “il progetto sotteso al modello organizzativo
See & Treat non contiene sostanziali elementi di novità rispetto a ciò che gli infermieri italiani fanno già dagli anni Novanta”, ribadendo l’impegno “a mantenere un alto livello di collaborazione con i medici con cui da sempre gli infermieri condividono l’impegno assistenziale e curativo”.
Al di là delle molte riflessioni che suggerisce, l’episodio ha rivelato chiaramente come la crescita della professionale degli infermieri apra contraddizioni importanti nel mondo sanitario.
E accanto a queste ci sono le criticità proprie della professione infermieristica: la carenza di personale con conseguenti costanti carichi di lavoro eccessivi; la difficoltà ad articolare un vero sviluppo nella carriera, nonostante i recenti interventi normativi; le basse retribuzioni, inadeguate ad una professione che comporta studi universitari e responsabilità “in proprio”.
Tutto questo si esprime anche in un disagio, che è comune ad altre professioni di servizio, che investe lo stesso “valore” della professione in senso etico.
Per capire meglio questo quadro complesso, e per fornire elementi di riflessione in materia ai lettori di
Quotidiano Sanità, cominciamo oggi un viaggio nel mondo degli infermieri. Questa prima puntata traccia un identikit della professione, mentre nelle prossime parleremo di retribuzioni, di formazione, di sviluppo della carriera e del dibattito più recente che ha riguardato gli infermieri italiani.
Il disagio motivazionale
Chi sceglie di fare una professione “sociale”, che riguardi la salute, la giustizia o l'insegnamento, spesso lo fa sulla spinta di forti motivazioni etiche. Tanto più se la professione scelta non ha grandi riconoscimenti economici. Una recente ricerca realizzata dall’Università Cattolica di Milano per conto della Cisl, rivela che il 28,6% degli infermieri ha scelto questo lavoro “perché è molto utile alla società” e il 27,3% lo aveva come “vocazione sin da piccolo”, mentre solo il 15,9% ha deciso perché è un “lavoro sicuro”.
Il rischio è la disillusione, la caduta verticale delle aspettative.
Lo riassumeva in una lettera, pubblicata in evidenza qualche giorno fa dal quotidiano La Stampa, l’infermiere Andrea Polidoro: “Ci muoviamo ogni giorno in un terreno agitato e stressante, dove la persona purtroppo ha perso la centralità e ciò che conta è far quadrare i conti, portare avanti la grande macchina della sanità, aumentare i numeri e i ricavi”. Lo abbiamo cercato e Polidoro ci ha raccontato la sua storia: ha 40 anni, si è laureato soltanto due anni fa, riprendendo un progetto giovanile accantonato per anni per impegnarsi come operatore nel sociale. Oggi lavora in una struttura privata di riabilitazione e gli pesa l’idea che la salute sia solo un business. Al telefono però è più pacato che nella lettera: “Dopo una lunga stagione di malgoverno, era necessario un giro di vite”.
Sono davvero troppo pochi?
Vent’anni fa in Italia c’erano circa 170mila infermieri, oggi sono più del doppio, 360mila, dei quali circa 270mila lavorano nel Ssn.
Eppure sono ancora pochi, visto che il rapporto da noi è di sei infermieri ogni mille abitanti, mentre la media Ocse è di 7 su mille. Secondo l’Ipasvi, la Federazione dei Collegi infermieristici, ne mancherebbero almeno 40mila, che difficilmente però saranno reperiti, visto che i 7mila laureati che ogni anno escono dai Corsi di Scienze infermieristiche non riescono neanche a coprire il turn over fisiologico dei pensionamenti.
Una soluzione su cui si discute è quella di un affiancamento agli infermieri di altri profili lavorativi come gli Oss (operatori sociosanitari) o gli Ota (operatori tecnici dell’assistenza), che si occupino dell’assistenza “alberghiera” o di qualche incombenza burocratica, lasciando libere le risorse infermieristiche di dedicarsi propriamente all’assistenza dei malati.
Un’altra soluzione, già ampiamente praticata, è quella dell’inserimento di infermieri provenienti da altri Paesi, che già oggi rappresentano circa il 10% degli infermieri in attività. Sono presenti soprattutto nel Centro Nord (12%) e in misura minore al Sud (5%).
Una professione, tanti profili
L’ultimo identikit dell’infermiere italiano, elaborato sui dati complessivi 2009 della Federazione Ipasvi, corrisponde ad una donna (sono il 75% del totale), piuttosto giovane (l’età media è di 42 anni), che lavora preferibilmente al Nord (il 47% degli infermieri sono nelle regioni settentrionali).
Ma a guardarla da vicino questa immagine si scompone in tante figure diverse, come in un caleidoscopio. Innanzi tutto bisogna distinguere gli infermieri pediatrici, che una volta si chiamavano vigilatrici d’infanzia e che sono circa 10mila in tutta Italia. Poi ci sono i coordinatori (le “vecchie” caposala) presenti in ogni reparto ospedaliero; i dirigenti dei servizi infermieristici, che non si sa quanti sono perché sono stati attivati, come previsto dalla legge 251 del 2000, solo in alcune realtà; i docenti di Scienze infermieristiche nei Corsi di Laurea universitari, quasi tutti “a contratto”. Tra gli infermieri “semplici” (guai a chiamarli “professionali”, che oggi lo sono tutti e i “generici” non ci sono più) le distinzioni sono ancora tante. Dipende dalla specializzazione (dalla medicina d’urgenza, ai trapianti, all’oculistica) e dal luogo in cui si opera (ospedale, territorio, casa di cura, riabilitazione). Infine, ci sono ancora quegli infermieri che svolgono, del tutto o in parte un’attività libero-professionale. Stando ai dati dell’Enpam, l’istituto di previdenza per la professione infermieristica che raccoglie i contributi derivanti dall’attività lavorativa non dipendente, sono circa 16mila, meno del 4,5% della professione.
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