Esiste ancora, nell’assistenza sanitaria italiana, una “terra di nessuno”, collocata tra ospedale e territorio, che impedisce la realizzazione di una vera e propria continuità di cura. Un vuoto che va colmato. E l’occasione per farlo potrebbe essere il rinnovo della convenzione per la medicina generale. Ne è convinto
Rinaldo Missaglia, presidente Simpef (Sindacato dei medici pediatri di famiglia), con il quale abbiamo parlato anche delle nuove problematiche degli adolescenti italiani e delle differenze sociali e culturali che impongono alla pediatria di affinare “l’arte del dialogo” per realizzare quell’alleanza terapeutica necessaria affinché i cittadini possano seguire volontariamente, consapevolmente e convintamente le indicazioni mediche volte a garantire la difesa della loro salute.
In questo contesto, Missaglia mette in guardia dalla politica che cerca di legare a sé particolari questioni di salute: “L’avversione per la politica o la fedeltà per un partito rischiano di sostituirsi alla scienza, con conseguenze potenzialmente gravi per la salute individuale e collettiva”.
Presidente Missaglia, le Regioni hanno approvato l’Atto di indirizzo. Cosa si aspetta il Simpef dalla nuova convenzione?
La Simpef premeva da tempo perché si riaprissero le trattative. Il sistema sanitario – e in particolare il sistema delle cure territoriali – ha bisogno urgente di una profonda manutenzione per rispondere alla nuova domanda di salute. Dalla convenzione ci aspettiamo dunque un grande cambiamento e una spinta per la valorizzazione della medicina territoriale.
In che modo è cambiata la domanda di salute per la pediatria di famiglia?
Anzitutto si sono dilatati i numeri, perché oggi c’è molta più attenzione nei confronti della salute, anche quella dei bambini. Gli accessi ai nostri ambulatori sono aumentati, così come gli accessi al pronto soccorso che in buona parte, anche per quanto riguarda la pediatria, potrebbero trovare risposte sul territorio.
La pediatria è in grado già oggi di rispondere adeguatamente ai bisogni dei suoi pazienti, perché l’assistenza che offriamo si è molto affinata negli anni sia in termini di conoscenze che in termini di strumentazione e personale di supporto. Inoltre la nostra presenza è diventata capillare su tutto il territorio nazionale, così come la copertura h12 è ormai una realtà in quasi tutto il Paese. Questa offerta assistenziale ha però bisogno di essere contrattualizzata, anche allo scopo di diffondere le migliori pratiche nelle aree in cui c’è ancora carenza assistenziale.
Ed è possibile farlo a costo zero?
Che lo Stato non sia nelle condizioni di erogare ulteriori risorse è un dato di fatto. Siamo però convinti che all’interno dei vari comparti del Ssn vi sia spazio per razionalizzare le spese e riallocare le risorse. Tutto sta nel decidere gli obiettivi che si vogliono raggiungere e il tipo di assistenza che si vuole dare. In base a questo, togliere le risorse dai comparti inefficienti e riallocarle là dove possono davvero permettere al sistema di diventare efficiente. L’ottimizzazione si traduce in ulteriori risparmi che possono a loro volta essere investiti per migliorare il sistema. Siamo convinti che la valorizzazione delle cure primarie possa tradursi in tutto questo.
Quale contributo può dare la pediatria?
Il pediatra di famiglia potrebbe svolgere alcune prestazioni che oggi sono rimandate a un secondo livello di assistenza. A questo scopo sarebbe utile una collaborazione tra forze del territorio e forze ospedaliere, specialmente quelle che oggi in ospedale sono mal utilizzate. Mi sembra che questa sia una prospettiva che vede d’accordo anche il Comitato di Settore delle Regioni e mi auguro che si vada avanti su questa strada.
Per lei, quindi, c’è spazio sul territorio per i pediatri ospedalieri?
Io sono convinto che l’assistenza sanitaria, in Italia, non potrà mai essere davvero efficiente se non cancelliamo quella “terra di nessuno” che esiste ancora oggi esiste nel percorso assistenziale e che impedisce la realizzazione di una vera e propria continuità di cura. Bisogna colmare il vuoto tra ospedale e territorio.
A questo scopo credo possa essere utile un provvedimento legislativo che offra un punto di congiunzione tra il comparto convenzionato e il comparto dipendente. O più semplicemente, nell’ambito del nuovo Acn si potrebbe dare vita a forme di collaborazione tra i professionisti del territorio e la specialistica ospedaliera per quanto riguarda, ad esempio, i percorsi diagnostico-terapeutici-assistenziali per le patologie croniche o per i pazienti fragili. Oppure per ottimizzare la gestione dei flussi per i casi acuti, ad esempio gestendo le liste d’attesa.
Credo che con la buona volontà si possa fare, l’importante è che per noi non cambi il regime convenzionale e che i colleghi ospedalieri non si sentano sminuiti. Sta al legislatore creare le condizioni per favorire il contatto tra i due comparti.
C’è qualcosa che non vi convince dell’Atto di indirizzo?
Rifiutiamo ogni interpretazione che vorrebbe vedere nell’Atto il tentativo di escludere i pediatri dall’assistenza agli adolescenti.
Diversi indagini dimostrano che oggi, a 12 anni, si beve, si fuma e si fa sesso. Ha senso fare assistere dai pediatri ragazzi che hanno gli stili di vita degli adulti?
Sì, perché per quante cattive abitudini possano avere, sono pur sempre adolescenti, non adulti. Non voglio dire che i medici di famiglia non sarebbe in grado di assisterli, ma credo che i pediatri possano offrire qualcosa di più, già solo per il fatto di poter contare su un rapporto costruito in anni e anni di assistenza. I ragazzi ci conoscono, siamo quelli che li hanno curati per 10 anni. E questa conoscenza può favorire l’ascolto e l’alleanza terapeutica.
Sono comunque convinto che i pediatri debbano specializzarsi sempre di più sulle nuove problematiche che caratterizzano l’età adolescenziale. Problematiche che non abbiamo avuto modo di trattare durante il percorso universitario perché fino a qualche tempo fa erano molto distanti dalla vita dei bambini e dei ragazzi. Ma la società è cambiata, i ragazzi sono cambiati, e i pediatri sono chiamati a cambiare con loro.
Nel mondo medico si parla molto di crisi dell’alleanza con il paziente. Nel vostro caso forse i problemi riguardano più i rapporti con i genitori. Questo rapporto è in crisi?
È sicuramente cambiato, ma non lo definirei ostile. Capita a tutti che vi siano pazienti - o genitori di pazienti - con cui si sviluppa poca empatia, ma in pediatria si tratta di una quota molto marginale, da considerare fisiologica. Peraltro non mi sembra che il fenomeno sia aumentato negli ultimi anni.
Cosa è che vi permette di avere un buon rapporto con gli assistiti?
La capacità di dialogo e di ascolto. Perché la medicina è scienza, ma è anche un’arte. Ed è esercitando bene questa arte che si riesce a creare l’alleanza terapeutica con il paziente. Consideri che noi pediatri siamo riusciti a far superare ai nostri pazienti la pretesa delle visite domiciliari facendogli capire che la prestazione è migliore se il medico può lavorare nel suo ambiente, con a disposizione tutta la sua strumentazione e il personale di supporto. Una svolta epocale. Se siamo riusciti a ottenere la fiducia dei genitori su una questione come questa, siamo convinti di poterli condurre ad intervenire su molti altri fenomeni allarmanti, come l’aumento dell’obesità infantile.
Ci sarà, comunque, qualche “tipologia” di genitore più difficile…
Difficili erano le nonne, che cercavano di interferire sia sulle indicazioni dei medici che sull’educazione dei loro nipoti. Oggi, però, sono sempre più spesso i genitori ad interfacciarsi con i pediatri e a preoccuparsi della salute dei loro figli, come è giusto che sia.
Qualche difficoltà si può trovare con le famiglie di genitori divorziate o di cui non conosciamo bene la storia e la composizione. In questi casi ci vuole particolare attenzione e delicatezza, sia per non ferire il bambino, che per non peggiorare il rapporto tra i due genitori, ma anche per evitare che uno dei genitori cerchi di strumentalizzare la salute del figlio e il pediatra per colpire l’ex partner.
Sicuramente qualche difficoltà c’è anche nel rapporto con i pazienti stranieri, non solo per motivi di lingua, ma anche perché molti stranieri hanno difficoltà ad accettare le regole del percorso terapeutico.
Le diverse tradizioni alimentari possono essere un problema. Penso allo svezzamento dei bimbi di famiglie che, ad esempio, rifiutano di alimentarsi con la carne.
Certo. Questo capita con gli stranieri ma anche con i vegetariani e vegani. In questi casi, dove è possibile sostituire un alimento con un altro, si cerca di venire incontro alle tradizioni culturali della famiglia. Ma anche in questo caso la differenza può farla l’arte del dialogo, perché spesso i genitori si convincono a darci ascolto se, manifestando rispetto per la loro cultura, gli viene però spiegato come alcune scelte alimentari avere benefici sulla crescita dei loro figli. Informare è meglio che imporsi.
Credo che sarebbe interessante cogliere l’occasione dell’Expò, dedicato proprio al tema della nutrizione, per approfondire anche le tematiche inerenti alle tradizioni delle diverse culture e a come queste possano essere rispettate nell’ambito delle cure.
Il Gruppo consiliare Movimento 5 Stelle Lombardia ha depositato un progetto di legge per sospendere l'obbligo di vaccinazione per l'età evolutiva. È d’accordo con questa proposta?
Solo in parte. Sono convinto, come dicevo, che le cose non vadano imposte. Ma sono altrettanto convinto che i vaccini debbano essere fatti. Sono un’arma di salute pubblica fondamentale per contrastare malattie contro le quali non bisogna mai abbassare la guardia. È infatti dimostrato che al di sotto di un livello di copertura (in media tra il 90 e il 95%) il rischio epidemia nel tempo diventa altissimo. E parliamo di malattie per le quali un’eventuale epidemia sarebbe un dramma, sia in termini di costi umani, tra decessi e danni permanente, sia in termini di costi assistenziali e sociali.
Le vaccinazioni vanno fatte. È una questione di responsabilità sociale, oltre che individuale. Tutelando i nostri figli, tuteliamo i figli degli altri e quindi il Paese. Questo si può spiegare ai genitori, e i genitori sono in grado di capirlo. Per questo vanno attuate campagne informative efficaci rivolte alla popolazione. Alcune esperienze hanno anche dimostrato che la copertura vaccinale volontaria può addirittura essere più alta della copertura vaccinale obbligatori, se la popolazione è ben informata e resa consapevole dei benefici della vaccinazione e dei rischi a non farla.
Della proposta del M5S non condivido invece le motivazioni di tipo economico. Secondo quanto si è potuto leggere nella nota del Gruppo che annunciava il progetto, si riterrebbe che essendo la copertura vaccinale ormai molto elevata, si potrebbe evitare l’obbligo e ottenere risparmiare dal minore utilizzo di dosi di vaccino. Ma se non vacciniamo i bambini, quella copertura si abbasserà e il rischia epidemia crescerà. Un’epidemia sarebbe tutt’altro che un risparmio.
Ritiene che il nostro Paese sia in grado di realizzare una campagna di comunicazione così efficace su un tema così sensibile come i vaccini?
Bisogna riuscirci. Bisogna far capire agli italiani che i vaccini sono un’arma a tutela dei loro figli. Bisogna fargli capire che la vaccinazione non è un dovere, ma un diritto. Su questo tema serve una presa di coscienza sociale. Quello che sicuramente bisogna evitare è di politicizzare l’argomento. È scorretto e controproducente legare una questione di salute a una fede politica. L’avversione per la politica o la fedeltà per una parte di questa rischia di sostituirsi alla scienza quando si tratta di compiere una scelta di salute. La politica stia molto attenta a non farlo.
Lucia Conti