Due lettere al direttore hanno posto con puntualità due questioni che meriterebbero una discussione approfondita: la prima è di B. Delzotti sul “
codice deontologico” dei medici, la seconda di F. Barbero sulla
“classificazione delle professioni” decisa dall'Istat. Questioni apparentemente molto diverse ma che non solo sono comunicanti, perché i comportamenti professionali danno luogo a ruoli, ma pongono entrambe un problema comune di fondo:
• relativamente ai cambiamenti che da quasi mezzo secolo impattano in sanità e in medicina sui tradizionali rapporti tra società scienza economia,quale deontologia,
• come classificare i comportamenti professionali deontologicamente ridefiniti in ruoli?
Il problema comune è:
• a quale “genere” appartengono i comportamenti professionali normati con delle etiche deontologiche
• a quale “genere” appartengono i ruoli classificati con dei criteri operativi.
L'istat per un verso e il codice deontologico dei medici per un altro rispondono in modo contraddittorio senza cogliere il senso e il significato di fondo dei cambiamenti in atto. Tali cambiamenti sui quali si è scritto molto e che grosso modo sono riassumibili nell'espressione “
post modernità”, nei confronti delle professioni medico-sanitarie, si caratterizzano come un
conflitto profondo tra una nuova domanda di salute, forti limiti economici e una tradizionale e declinante offerta di professionalità. Per cui il quesito vero al quale tanto le deontologie che le classificazioni dovrebbero rispondere è: quale deontologia e quali ruoli professionali sono più indicati a governare questo conflitto? Cioè quali professioni? Dando per scontato che quelle tradizionali vanno comunque ripensate.
L'idea del “conflitto”, come chiave di lettura della post-modernità, non è altro che un espediente per introdurre nell'analisi un grado in più di complessità. Oggi le professioni hanno a che fare con una complessità superiore rispetto a quella della società precedente nella quale operavano perché da forme di relazioni una volta complementari, tra etica scienza economia, si è passati, ob torto collo, a forme di relazioni opposizionali. La complessità con la quale tanto i codici che le classificazioni si devono confrontare, è tutta qua. Le professioni quali combinazioni di conoscenze, pratiche e deontologie si trovano in mezzo tra etiche sociali che cambiano, scienza che evolve e forti condizionamenti economici per cui sarebbero “costrette” quanto meno ad adeguarsi.
A giudicare dalle obiezioni, che personalmente condivido, contenute nelle due lettere, la prima cosa che si capisce è che questo adeguamento evolutivo non c'è per cui tanto la deontologia medica, che la classificazione Istat, sembrano ignorare del tutto i problemi di fondo da cui bisognerebbe partire. Cioè nelle premesse delle loro proposte manca del tutto l'analisi sulla post modernità, con il risultato che le proposte che emergono alla fine risultano meri aggiornamenti di una invarianza normativa di fondo con l'aggiunta di non secondarie contraddizioni. E già questo è un grosso problema perché espone le professioni al rischio, che più volte ho definito, della “
regressività”, cioè dell'inadeguatezza nei confronti di ciò che cambia.
La seconda cosa che si capisce è che gli aggiornamenti per esempio deontologici, cercano di adattare la figura tradizionale del medico al conflitto etica scienza economia che lo sta devastando, ma senza cercare di risolverlo. Le obiezioni di Delzotti mi sembrano molto pertinenti nel senso che la tendenza è quella di concepire un aggiornamento del medico in senso compatibilista soprattutto con le esigenze dell'economia anziché cimentarsi con la definizione compossibilista cioè con un nuovo “genere” di medico in grado di rendere compossibili tanto l'etica quanto la scienza che l'economia.
Per quanto riguarda le classificazioni professionali le osservazioni di Barbero mettono ben in evidenza le forti contraddizioni della classificazione Istat. Resta una classificazione tradizionale per compiti e/o competenze nel momento in cui proprio la post modernità mette in crisi l'idea burocratica di “compito” creando non marginali conflitti inter professionali, a fronte di un sistema formativo squilibrato che nel caso dei medici è fortemente in ritardo e nel caso degli infermieri ha comunque cambiato la loro identità professionale.
Viene così sancita una differenza certamente innegabile ma in un modo vecchio cioè senza tenere conto che il professionalismo degli infermieri almeno sulla carta è profondamente cambiato. Oggi si dovrebbero classificare senza appiattire le diversità tra professioni perché non sono indiscernibili ma sulla base di nuove differenze e nuovi generi. L'Istat ci propone una vecchia distinzione tra
specialismo e
professionalismo che francamente appare come un rottame di altri tempi. Oltre tutto si tratta di due nozioni che pur con delle aporie codefiniscono in forma diversa tanto il medico che l'infermiere, per cui si tratta di capire come diversificarli senza negare le loro intrinseche complessità. Non so se Barbero pensa che le contraddizioni che lui ha rilevato si possano rimuovere con un ruolo unico fatto da professioni intellettuali perché laureate, spero di no, perché sarebbe una soluzione formale sbagliata, che causerebbe conflitti ma soprattutto che non coglierebbe le diverse complessità in gioco.
Le soluzioni non sono negli appiattimenti formali ma nelle diversificazioni sostanziali per cui oggi serve ripensare sull'esempio di Linneo i generi e le specie di professioni, e se le tassonomie delle classificazioni sono inadeguate si cambiano le tassonomie. Non si può restare prigionieri come l'Istat della contrapposizione tra specialismo e professionalismo. Oggi tanto il medico che l'infermiere in modo profondamente diverso non sono solo professioni specialistiche o tecniche, ma qualcosa di più e di nuovo.
Concludendo a me pare che le due lettere ci dicono che tra post modernità deontologia e classificazione delle professioni esistono parecchie incongruità per cui esse introducono la questione di una rifondazione tanto delle prime che delle seconde.
Per me una strada possibile resta quella di ripensare, ancor prima dell'atto professionale o compito o competenza, tanto l'agente deontologico che quello professionale. Credere come pensano alcuni burocrati del ministero della Salute che si possano ridefinire i comportamenti professionali giocando sui compiti a “agenti” invarianti è un finto riformismo e non ci porterà che conflitti.
Del resto come è possibile tradurre la post modernità in deontologie e ruoli professionali se non ripensando
l'agente, sia esso medico o infermiere, cioè colui dal quale dipendono tanto i comportamenti deontologici che quelli professionali? L' epoca del
compito è finita mentre sta prendendo piede quella
dell'impegno. Non si tratta più di definire declaratorie, mansionari, profili a prescindere dall'agente ma di definire condizioni di autonomia e responsabilità dell'agente in funzione degli obbiettivi che gli competono. Come si definiscono gli impegni? Una volta che si è risposto a questa domanda bisogna dire quale deontologia e come classificarli. Questo è il problema che un vero riformismo dovrà affrontare.
Ivan Cavicchi