Lavoro e Professioni
Monetizzazione delle ferie non godute, miti da sfatare: l’onere della prova non è del sanitario
di Francesco Del RioOgni qual volta si apre una breccia al riconoscimento di un diritto, soprattutto quando questo avviene attraverso un radicale mutamento giurisprudenziale dovuto all’intervento della Corte di Giustizia Europea, capita di dover registrare atteggiamenti di resistenza che, messi in atto proprio da coloro che dovrebbero dare seguito al nuovo precetto, concorrono a generare una serie di falsi miti sui requisiti di accesso al beneficio.
Accade non di rado di veder opporre al dirigente medico andato in pensione che reclama il pagamento dell’indennità finanziaria per i giorni di ferie non goduti durante il rapporto, che deve previamente motivare la richiesta con le ragioni personali o di servizio, che gli avrebbero impedito di fruirne.
Si fa ricorso a risalenti pronunciamenti giudiziali, dimenticando tutte le innovazioni successivamente intervenute, per contestare al malcapitato ex dipendente che, non avendo circostanziato le cause impeditive od ostative alla fruizione del diritto alle ferie ovvero i fatti posti a sostegno delle presunte carenze organizzative, non avrebbe diritto ad alcun compenso monetario.
È chiaro che, soprattutto per le questioni attinenti al servizio, il medico (oramai in pensione) si verrebbe a trovare in seria difficoltà, risultandogli arduo l’accesso a documenti od altre evidenze che possano sostenere una richiesta di prova in tal senso.
Non per questo dovrà però pensare di aver definitivamente perduto il proprio diritto perché, come vedremo, la Cassazione è invece concorde nel ritenere che il lavoratore non è gravato da questo onere probatorio per poter richiedere la monetizzazione delle ferie non godute.
Cosa dice la Cassazione sul diritto all’indennità per Ferie non godute
Proprio di recente, il Supremo Collegio è tornato ad esprimere il proprio pensiero su questi aspetti e lo ha fatto con una recente ordinanza, la n. 14083/2024, che non lascia spazio ad equivoci od interpretazioni fuorvianti, tanta è la chiarezza lessicale con cui vengono spiegati i motivi di accoglimento delle ragioni del medico ricorrente.
La questione è assai comune a molti sanitari che, cessati dal rapporto di lavoro pubblico, hanno richiesto all’Azienda datrice il pagamento dei giorni di ferie non potuti godere durante il servizio. Ricevuto il diniego da parte dell’azienda, costui si vedeva costretto a proporre domanda giudiziale davanti al Tribunale del Lavoro, che respingeva la richiesta quantificata in oltre 40 mila euro.
Impugnata la sentenza di rigetto, la Corte d’Appello non accoglieva il gravame; dunque, il medico era costretto a ricorrere alla Corte di Cassazione, sostenendo l’erroneità dei raccolti pronunciamenti negativi per aver malamente applicato i principi regolatori della materia. Nello specifico, il ricorrente si doleva del fatto che i giudici di merito gli avevano addossato la prova delle ragioni aziendali e personali, che gli avrebbero impedito di godere delle ferie annuali retribuite.
La Corte territoriale aveva infatti osservato che, a fronte del documento prodotto dall’Azienda, con cui veniva disposto che il medico godesse di 6 giorni di ferie al mese fino all’azzeramento del pregresso “compatibilmente con le ragioni di servizio e personali”, nessuna prova era stata fornita dal sanitario per giustificare l’ulteriore persistenza di giorni di ferie reclamati a titolo indennitario.
Con il secondo motivo, veniva dedotta l’erroneità del ragionamento che aveva portato al rigetto della pretesa, nella parte in cui aveva escluso la possibilità di monetizzazione nel momento in cui, come nel caso in questione, il lavoratore era cessato dal servizio per motivi di salute.
Entrambe le doglianze espresse dall’ex medico, ormai in pensione, hanno trovato il meritato accoglimento, venendo motivatamente illustrati gli errori commessi dai giudici di merito nei loro precedenti pronunciamenti.
L’onere della prova grava sul datore di lavoro
La Corte ha inteso premettere che la perdita del diritto alle ferie e del relativo compenso pecuniario alla cessazione del rapporto di lavoro è consentita soltanto nell’ipotesi in cui il datore sia in grado di dimostrare di aver invitato il lavoratore a fruirne – se necessario formalmente – e nel contempo avvisato, in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le stesse ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo a cui esse sono destinate, che in caso di mancato godimento verranno perse.
È quindi il datore di lavoro – ed in ciò si struttura l’onere probatorio a suo esclusivo carico – ad essere gravato dalla prova di aver attivato tutti gli strumenti organizzativi per consentire al lavoratore di fruire appieno del periodo feriale, invitandolo formalmente a farlo, ed assicurandosi che l’organizzazione del lavoro e le esigenze di servizio non siano tali da impedirne l’utilizzo.
Poco oltre, infatti, si conclude categoricamente “ha errato la Corte territoriale affermando che l’onere di provare l’assenza di esigenze di servizio idonee a giustificare la non fruizione del congedo gravava ormai sul dipendente, dovendo comunque essere sempre il datore di lavoro a dimostrare di aver fatto tutto il possibile affinché il lavoratore usufruisse del periodo di ferie al quale aveva diritto”.
L’invito dell’azienda prima del pensionamento
Scrutinando il contenuto della missiva inviata al dipendente, la Corte ha poi osservato come la stessa non fosse neppure idonea a soddisfare l’onere della prova a carico dell’Azienda, atteso come l’invito formulato al dipendente a godere delle ferie pregresse fosse comunque condizionato alle esigenze di servizio e personali.
Questo significa – a tenore della decisione commentata – che la comunicazione prodotta dall’Azienda risulta carente, non solo del carattere di perentorietà, quanto piuttosto dell’avviso che i giorni di ferie arretrati avrebbero potuto essere azzerati, in caso di mancato godimento, senza peraltro specificare il termine ultimo diverso da quello, naturale, della cessazione del rapporto.
Aver inserito nel testo della comunicazione l’impegno del lavoratore a fruire delle ferie, ma compatibilmente con le esigenze del servizio, porta a concludere che l’interesse primario non coincide con quello del dipendente, quanto dell’azienda che, in ogni caso, vuole garantiti gli obbiettivi del servizio, così sottoponendo il primo al secondo.
La rinuncia alle ferie deve essere volontaria
Perentoria poi l’affermazione della Corte che, raccordando in un’unica direttrice i distinti insegnamenti provenienti dalla Corte di Giustizia Europea, dalla Corte Costituzionale e dal Consiglio di Stato, stabilisce che il divieto di monetizzazione delle ferie non godute può trovare applicazione soltanto nel caso in cui il dipendente rinunci di sua volontà al godimento delle ferie, ricorrendo, in caso contrario, la violazione degli artt. 32 e 36 della Costituzione.
I principi di diritto affermati dalla Corte
Cassata la sentenza della Corte di Appello, la decisione è stata rimessa nuovamente al merito che dovrà attenersi ai seguenti principi di diritto:
1. "In tema di pubblico impiego privatizzato, il dipendente non perde il diritto alle ferie ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro, ove tale cessazione sia avvenuta per malattia che abbia impedito l'effettivo godimento del periodo di congedo ancora spettante";
Francesco Del Rio
Avvocato Consulcesi&Partners