Il documento messo a punto da Agenas “non rappresenta una Riforma compiuta dell’Assistenza socio sanitaria territoriale”. È questa una delle premesse che fa la Cgil nelle sue osservazioni alla
bozza di riforma su cui lo scorso mese ci sono stati degli incontri con Agenas e Ministero della Salute.
Per il sindacato nel documento “non sono trattate componenti importanti del complesso sistema di servizi e attività previsti nei LEA distrettuali (e della Prevenzione), le questioni riferite al personale sono in gran parte da sviluppare o lasciate in sospeso (si pensi al ruolo dei Medici di Medicina Generale), sono appena accennate connessioni esplicite con le riforme e gli investimenti della Missione 5C2, in specie sulla non autosufficienza, non viene affrontato adeguatamente il rapporto tra questo intervento e il DM 70/2015 su standard e requisiti della rete ospedaliera”.
Uno dei punti di critica è poi l’ampio margine che viene lasciato alle Regioni: “Il Decreto Ministeriale sulla riorganizzazione dell’assistenza territoriale deve contenere requisiti e standard vincolanti e omogenei per le regioni, sia per assicurare l’uniformità dei LEA in tutto il Paese, contrastando l’attuale frammentazione del SSN e evitando le fughe autonomiste di alcune regioni (es. Lombardia)”.
Per il sindacato “appare invece in più parti del documento che le regioni “dovrebbero” oppure “possono” attuare le indicazioni e gli standard previsti, e ciò lascia margini di scelta che rischiano di riprodurre la frammentazione del nostro SSN e il disuguale accesso ai LEA, ben oltre i legittimi margini di autonomia organizzativa delle singole regioni. Proprio la previsione che il DM per la riforma dell’assistenza territoriale sia il frutto di un Intesa fra Stato e Regioni può e deve consentire l’individuazione di modelli, requisiti, standard e indicatori uniformi e validi per tutto il territorio nazionale; il monitoraggio nella loro attuazione, da parte della Comitato LEA, deve essere parte della verifica degli adempimenti regionali per l’accesso a premi e a sanzioni”.
Ma uno dei nodi che per la Cgil la proposta non scioglie è quello del ruolo del medico di famiglia nelle Case della Comunità: “Nell’ambito delle Case della Comunità (ma anche per l’ADI e in generale per le cure primarie previste nei LEA Distrettuali) devono essere presenti e operare tutti i professionisti della sanità e del sociale, assicurando l’interdisciplinarietà e il lavoro d’equipe, compreso l’obbligo di presenza nella Casa dei Medici di Medicina Generale (che possono comunque operare anche nei loro studi associati per assicurare una maggiore capillarità delle cure primarie), avendo, almeno per i nuovi ingressi, come obiettivo il loro passaggio alle dipendenze del SSN. Non è accettabile un modello differenziato di Casa della Comunità a seconda delle soluzioni adottate nelle singole regioni in forza degli accordi con i MMG”.
E in questo senso dubbi permangono “nella soluzione organizzativa contenuta nel documento cioé: “Nelle CdC hub&spoke inoltre, è garantita l’assistenza medica H12 - 6 giorni su 7 attraverso la presenza dei MMG afferenti alle AFT del Distretto di riferimento. Tale attività ambulatoriale sarà aggiuntiva rispetto alle attività svolte dal MMG nei confronti dei propri assistiti e dovrà essere svolta presso la CdC hub&spoke” è un passo avanti rispetto alla versione precedente del documento ma ancora insufficiente, perché di fatto non va nella direzione di inserire i Mmg nell’organico delle case di comunità. Occorre aggiungere che, almeno nelle Case Hub, è prevista la presenza permanente di un équipe di MMG delle cure primarie a rapporto orario e non a quota capitaria, per favorire il graduale passaggio ad un rapporto di lavoro di dipendenza (cui si affiancheranno i MMG presenti a rotazione) per consentire quel lavoro interdisciplinare dell’équipe multiprofessionale che deve caratterizzare il lavoro del Distretto e in questo della Casa della Comunità”.
Da sciogliere per la Cgil anche i nodi sull’integrazione socio-sanitaria dove “la mancanza di misure cogenti e vincolanti (da concordare fra Stato, Regioni e Comuni) rischia di mantenere uno status quo fatto di separatezza. Sappiamo che la legislazione in materia è ancora debole: devono essere definiti i Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali, le competenze tra Regioni e Comuni sono contraddittorie, non vi è obbligo di integrazione fra sociale e sanità”.
Inoltre “suscita forte preoccupazione il modello organizzativo descritto per l’Assistenza Domiciliare Integrata (ADI). L’ADI è il pilastro dell’assistenza territoriale e il principale investimento dello stesso PNRR nella Missione 6C1 (4 miliardi). Il documento del tutto lacunoso sugli standard (in specie di personale) - sembra prefigurare l’affidamento del servizio a soggetti accreditati privati”.
Infine per la Cgil “va meglio chiarita la funzione della COT Centrale Operativa Distrettuale, che deve effettivamente essere funzionale al coordinamento e al raccordo tra i diversi servizi operanti nel Distretto e nell’Asl. Nel caso di un Distretto “committente” la COT rischia di diventare l’unica funzione pubblica del Distretto”.