21 gennaio -
Julita Sansoni è professore associato di Infermieristica Generale e Clinica alla Sapienza “Università” di Roma. Di origine trentina, ha svolto il suo dottorato in Finlandia ed è stata la prima infermiera a conquistare una docenza universitaria in ruolo.
Professoressa Sansoni, sono ormai 10 anni che l’infermieristica è entrata nell’Università. Che cosa ha prodotto questa novità?
A dire la verità sono ben più di 10 anni. La prima norma che prevedeva un corso universitario di Infermieristica è del ’65 ed è poi stata attuata nel 1967. Si era pensato, allora, di preparare un secondo livello infermieristico finalizzato alla docenza, all’organizzazione e alla dirigenza, in modo che ci fossero infermieri che potessero insegnare e organizzare i servizi. Era un proposito molto avanzato, che però ha fatto fatica a realizzarsi. Poi, (alla fine degli anni ’80) dieci anni fa appunto, si è deciso di portare in Università anche la formazione infermieristica di base, trasformando quel “secondo livello” nella attuale laurea specialistica. Ma restano ancora molti nodi su cui lavorare a cominciare dai curricoli formativi e dalle stesse cattedre.
Qual è il problema dei curricoli?
Oggi, di fatto, seguono un modello biomedico. Molte discipline, quasi tutte, sono discipline mediche, anche perché, a oggi, la disciplina infermieristica riconosciuta in Italia è una sola. All’estero invece ci sono diverse cattedre di discipline infermieristiche: storia dell’assistenza infermieristica, management infermieristico, clinica infermieristica, teoria infermieristica, ecc.
Il fatto è che i Corsi di Scienze infermieristiche sono inseriti nelle Facoltà di medicina e questo produce conseguenze. La direzione dei corsi di Laurea, anche di quello in Scienze infermieristiche, è prettamente medica.
Era prevedibile che questo accadesse.
In parte sì, ma i problemi sono stati amplificati dalla situazione degli ultimi anni. Basti pensare al progetto, poi rientrato, di accorpare, per ragioni di contenimento della spesa, le classi di insegnamento da Med45 a Med50. Avrebbe di fatto cancellato l’esistenza stessa delle Scienze infermieristiche, come disciplina autonoma.
E oltre alle difficoltà economiche, bisogna tener conto di una “ sovrapproduzione universitaria” medica. Così, mentre la maggioranza degli studenti delle Facoltà di medicina sono iscritti ai corsi per le professioni sanitarie, le docenze continuano ad essere a stragrande maggioranza di medici.
Questo stato di cose rappresenta un pericolo per la professione infermieristica perché porta lentamente a modificare l’assetto epistemologico della disciplina stessa con delle conseguenze che a lungo termine, potrebbero essere anche gravi in termini di risultati assistenziali sulla popolazione.
Quanti sono oggi gli infermieri docenti universitari di ruolo?
Sono trentaquattro, di cui una ventina di ricercatori. Del gruppo fanno parte anche quattro medici e l’unico ordinario in Scienze infermieristiche è un medico.
Pensa che si debba creare una Facoltà autonoma?
In molti Paesi che si rifanno al modello americano esistono Facoltà di Infermieristica (Usa, Australia, Hong Kong, Columbia, Nigeria), ma da noi occorrerà tener conto dei tempi tecnici. Personalmente, penso che in questo momento storico si può restare nella Facoltà di medicina, ma creando dipartimenti infermieristici che siano retti da infermieri e che aprano un percorso che potrebbe anche portare alla creazione di Facoltà autonome quando avremo professori infermieri in numero opportuno per poterlo fare. Ma è un obiettivo ancora lontano, che richiede un grande sforzo per sviluppare la ricerca oltre che a un folto gruppo di docenti infermieri dedicati allo sviluppo teorico e alla applicazione/sperimentazione nella pratica assistenziale specifica.
Intanto è importante attenersi alla dichiarazione di Bologna, che definisce i percorsi formativi per ciascuna figura professionale a livello europeo, anche in vista della libera circolazione dei malati e dei professionisti. Per gli infermieri si indicano tre anni di formazione di base, più due di laurea specialistica, più il dottorato. E poi ci sono i Master, di primo o di secondo livello, ma su questo si è fatta un po’ di confusione: all’estero il Master è un master scientifico, di ampliamento degli orizzonti e di approfondimento, mentre i nostri Master sono professionali, come una specializzazione. Questo è un aspetto molto importante perché nel nostro Paese, per entrare nella dirigenza è richiesta la Laurea specialistica, che potremmo assimilare al Master scientifico straniero, ma non si entra nella dirigenza con il solo Master professionale.
Perché c’è tanta difficoltà a fare ricerca in campo infermieristico?
Credo che per fare ricerca in ambito infermieristico, per esempio durante il dottorato, sarebbe necessario avere dei responsabili infermieri oltre che docenti che sappiano indirizzare i giovani ricercatori sui terreni concettuali propri della professione. Infermieri e insieme docenti a pieno titolo, perché altrimenti non si incide sull’Università. Per questo la proposta di legge sulla docenza infermieristica aziendale, mi preoccupa: istituzionalizza la realtà attuale nella quale gli infermieri sono per lo più docenti “a contratto”, praticamente a costo zero e per lo più estranei alla vita scientifica universitaria. Per approfondire e sviluppare la disciplina, è necessario fare ricerca, avere tempo dedicato, essere una comunità scientifica e non svolgere l’insegnamento come ulteriore impegno dopo un turno di lavoro.
C’è anche un problema di fondi?
Sono un altro problema, certo. Anche perché sono sempre pochi e difficilmente, dovendo scegliere, si sceglie di sostenere un progetto infermieristico. Ma gli infermieri sono abituati a lavorare su base volontaria. E questo, in qualche modo, è un male.
E la ricerca privata, sostenuta dalle aziende?
In molti Paesi (Irlanda, Svezia, Inghilterra), anche per ragioni economiche, gli Infermieri possono fare la prescrizione terapeutica. In Spagna, per esempio, dallo scorso anno, gli infermieri prescrivono 400 principi attivi. Mi dicono che in questi mesi siano arrivati anche maggiori finanziamenti alla ricerca infermieristica da parte delle industrie farmaceutiche.
Ma la soluzione non è in questa direzione: servono finanziamenti pubblici ad hoc, per sostenere una ricerca sull’assistenza capace anche di orientare le scelte della sanità. Esistono studi e molte evidenze scientifiche che dimostrano il beneficio dell’assistenza infermieristica. Per questo è necessaria una decisione precisa del Paese, del Governo e degli Organi istituzionali relativa al grado di salute che si vuole dare alla popolazione. Deve essere una scelta.
In che direzione dovrebbe andare il modello sanitario?
C’è bisogno di uno sviluppo infermieristico sul territorio. Ma per realizzarlo c’è bisogno di avere una professione più consapevole, sia sotto il profilo della formazione e della ricerca sia sotto il profilo dell’organizzazione dei servizi, anche perché oggi, da noi, il risparmio maggiore nelle aziende si cerca di farlo proprio sugli infermieri. Non sostituendo chi va in pensione o sostituendoli con personale meno qualificato, formato in fretta e furia con corsi di pochi mesi. Un orientamento pericoloso per la professione infermieristica e ancora di più per la salute dei cittadini.
Perché dice che per cambiare il modello di sanità occorre più consapevolezza da parte degli infermieri?
Le cose le deve dirigere chi le conosce. In Finlandia, per esempio, che è un Paese che conosco bene, ma non solo lì, ci sono infermieri in tutta la catena sanitaria dei servizi infermieristici, dai reparti, al coordinamento delle realtà territoriali, su su fino alle direzioni ministeriali. Infermieri che partecipano e contribuiscono alla direttiva nazionale della politica sanitaria. Da noi, ad “occuparsi” di infermieri e di “infermieristica” ci sono altri professionisti. Per questo non riescono a capire le potenzialità specifiche della professione e a sviluppare servizi che la utilizzino al meglio.
C’è bisogno di infermieri che facciano bene gli infermieri, non di “piccoli medici”. E forse ci vorrebbero infermieri, consapevoli e con le idee chiare dal punto di vista professionale, che entrino in politica.