Non è, di per sé, contrario alla Costituzione il divieto sanzionato penalmente di aiuto al suicidio. Tuttavia, occorre considerare specifiche situazioni, "inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali".
È uno dei passaggi dell’ordinanza n. 207, depositata oggi (relatore
Franco Modugno), con cui la
Corte costituzionale ha rinviato al 24 settembre 2019 la trattazione delle questioni di costituzionalità dell’articolo 580 del codice penale, sollevate dalla Corte d’assise di Milano nell’ambito della nota vicenda sul suicidio assistito di
DJ Fabo, che vede imputato
Marco Cappato.
In particolare, la Corte d’assise sosteneva che l’incriminazione delle condotte di aiuto al suicidio, non rafforzative del proposito della vittima, fosse in contrasto con i principi sanciti dagli articoli 2 e 13 della Costituzione, dai quali discenderebbe la libertà della persona di scegliere quando e come porre termine alla propria vita. Conclusione avvalorata – secondo i giudici di Milano – anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
La Corte costituzionale non ha condiviso questa tesi, nella sua assolutezza.
"Analogamente a quanto avviene nelle altre legislazioni contemporanee – si legge nell'Ordinanza – anche il nostro ordinamento non punisce il suicidio, neppure quando sarebbe materialmente possibile, ossia nel caso di tentato suicidio. Punisce, però, severamente (con la reclusione da cinque a dodici anni) chi concorre nel suicidio altrui, tanto nella forma del concorso morale, vale a dire determinando o rafforzando in altri il proposito suicida, quanto nella forma del concorso materiale, ossia agevolandone 'in qualsiasi modo' l’esecuzione".
Il legislatore intende dunque, nella sostanza, proteggere il soggetto da decisioni in suo danno: "non ritenendo, tuttavia, di poter colpire direttamente l’interessato, gli crea intorno una “cintura protettiva”, inibendo ai terzi di cooperare in qualsiasi modo con lui". Questo assetto, secondo la Corte, non può ritenersi contrastante, di per sé, con i parametri evocati.
Il divieto, anche nell’odierno assetto costituzionale, ha una sua "ragion d’essere" soprattutto nei confronti delle persone vulnerabili, che potrebbero essere facilmente indotte a concludere prematuramente la loro vita, "qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto". Pertanto, non si può ritenere vietato al legislatore punire condotte che "spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite. Anzi, è compito della Repubblica porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in simili situazioni di fragilità, rimovendo, in tal modo, gli ostacoli che impediscano il pieno sviluppo della persona umana" (articolo 3, secondo comma, della Costituzione).
Tuttavia, si spiega, non si può non tener conto di specifiche situazioni, inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta. "Il riferimento – scrive la Corte – è, più in particolare, alle ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Si tratta, infatti, di ipotesi nelle quali l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare". In questo senso, la Corte considera paradigmatico il caso Cappato.
La legge n. 219 del 2017, sul fine vita, recependo le conclusioni della giurisprudenza, riconosce ad ogni persona "capace di agire" il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, compresi i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale, sottoponendosi a sedazione profonda continua. L’esercizio di questo diritto viene inquadrato nel contesto della "relazione di cura e di fiducia", la cosiddetta alleanza terapeutica, tra paziente e medico.
Nelle particolari situazioni sopra indicate, "vengono messe in discussione le esigenze di tutela che negli altri casi giustificano la repressione penale dell’aiuto al suicidio". Se, infatti, il valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di lasciarsi morire con l’interruzione dei trattamenti sanitari, "non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale". Proprio per questa ragione, DJ Fabo aveva chiesto il ricorso a un farmaco che gli garantisse una morte rapida.
In questi casi, "il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli articoli 2, 13 e 32, secondo comma, della Costituzione, imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile".
La Corte però non ritiene di poter porre rimedio a questo vulnus con una semplice cancellazione del reato di aiuto al suicidio di chi si trova in una situazione del genere. "Una simile soluzione lascerebbe, infatti, del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi". Una regolazione della materia volta ad evitare abusi nei confronti di persone vulnerabili implica una serie di scelte discrezionali e quindi l’intervento del legislatore.
"Una regolazione della materia - scrive la Corte - intesa ad evitare simili scenari, gravidi di pericoli per la vita di persone in situazione di vulnerabilità, è suscettibile peraltro di investire plurimi profili, ciascuno dei quali, a sua volta, variamente declinabile sulla base di scelte discrezionali: come, ad esempio, le modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, la disciplina del relativo “processo medicalizzato”, l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale, la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura".
"D’altra parte, una disciplina delle condizioni di attuazione della decisione di taluni pazienti di liberarsi delle proprie sofferenze non solo attraverso una sedazione profonda continua e correlativo rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale, ma anche a traverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte, potrebbe essere introdotta, anziché mediante una mera modifica della disposizione penale di cui all’art. 580 cod. pen., in questa sede censurata, inserendo la disciplina stessa nel contesto della legge n. 219 del 2017 e del suo spirito, in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della «relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico», opportunamente valorizzata dall’art. 1 della legge medesima", aggiungono i giudici.
In presenza di una pluralità di scelte discrezionali, finora la Corte aveva dichiarato l’inammissibilità della questione sollevata, con un monito al legislatore affinché approvasse la disciplina necessaria. Se il monito rimaneva senza riscontro, seguiva, di norma, una pronuncia di illegittimità costituzionale.
Ora, però, la Corte osserva che questa tecnica decisoria ha «l’effetto di lasciare in vita – e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per un periodo di tempo non preventivabile – la normativa non conforme a Costituzione». E "un simile effetto – si legge nell’ordinanza – non può considerarsi consentito nel caso in esame, per le sue peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei valori da esso coinvolti".
Di qui la decisione adottata di rinviare il giudizio a data fissa, per dare al legislatore la possibilità di intervenire con una apposita disciplina «che regoli la materia in conformità alle segnalate esigenze di tutela». Nel frattempo rimane sospeso il giudizio a quo. In altri eventuali analoghi giudizi spetterà al giudice valutare se, alla luce dei principi ora affermati, ci siano le condizioni per sollevare una uguale questione di legittimità costituzionale, così da evitare l’applicazione della disposizione censurata.
Questa la conclusione: quando "la soluzione del quesito di legittimità costituzionale coinvolga l’incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via diretta ed immediata, scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere", la Corte reputa "doveroso" consentire al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa, "in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale". Ciò al fine di "evitare, per un verso, che, nei termini innanzi illustrati, una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale".