Nella
prima parte di questo contributo avevamo posto l’attenzione sui cambiamenti strutturali e organizzativi della legge sugli ordini professionali. In questa seconda parte analizziamo le novità sui codici deontologici e sui procedimenti disciplinari.
Sui codici deontologici in generale: premessa
I codici deontologici sono il tradizionale strumento di codificazione di norme etiche patrimonio delle professioni “ordinate”. Deve essere prioritariamente sottolineato che i codici deontologici contengono “norme deontologiche che l’ordine professionale o il collegio ritengono importante proporre ai propri iscritti, ma tali norme non si identificano con l’intera sfera della deontologia” (
Benciolini P, 2000).
Un conto, quindi, è la riflessione deontologica altro è la sua cristallizzazione a un determinato momento storico rinchiusa nel codice. Il codice deontologico rappresenta un atto di autodisciplina professionale a cui viene riconosciuto il duplice ruolo di “fonte di orientamento professionale e di paradigma per la valutazione di condotte” (
Barni M, 1998).
Nei codici deontologici ritroviamo sostanzialmente tre tipologie di norme (
sempre Benciolini):
a) norme rapportabili a specifiche previsione normative (es. segreto professionale);
b) norme di natura prettamente etica;
c) norme di natura prettamente deontologica (es. rapporti con i colleghi)
d) norme di carattere disciplinare (ordinistico).
I codici deontologici hanno sempre rappresentato la principale fonte di orientamento professionale esaltando l’autonomia normativa degli ordini professionali.
Sui codici deontologici nella legge Lorenzin
La legge Lorenzin, sui codici deontologici, prevede norme relative alla funzione e all’approvazione. Per quanto concerne la funzione, si specifica che si attribuisce agli ordini un generale compito di promozione dell’indipendenza, dell’autonomia e della responsabilità, della valorizzazione sociale, della salvaguardia dei diritti umani e dei principi etici “indicati nei rispettivi
codici deontologici” al dichiarato fine di garantire la tutela della salute individuale e collettiva. Il codice deontologico come strumento, dunque, di carattere generale che caratterizza tutta la funzione ordinistica più alta proprio nei principi valoriali.
Per quanto riguarda l’approvazione si prevede una procedura speciale: deve essere emanato dalle Federazione nazionali previa approvazione dei Consigli nazionali (l’insieme dei presidenti provinciali) con la maggioranza qualificata del 75% e deve essere recepito con delibera dai singoli consigli direttivi provinciali.
Su questo ultimo aspetto la norma non è chiarissima: non si comprende cioè se il mancato recepimento del consiglio direttivo possa aprire la strada a un codice deontologico di diversa natura (esempio di emanazione territoriale più circoscritta: provinciale o interprovinciale) oppure se l’atto di recepimento debba essere considerato come dovuto e non discrezionale. La lettura sistematica della norma porta alla conclusione dell’impossibilità di avere codici deontologici diversi da quello approvato con la procedura rafforzata indicata dalla legge con la conseguenza che l’atto deliberativo di recepimento sia da considerarsi atto dovuto.
Sui procedimenti disciplinari e sulla loro funzione nella legge Lorenzin
Si è tradizionalmente sempre affermato che i procedimenti disciplinari costituiscono la maggiore espressione di “magistratura deontologica” degli ordini professionali. In questa sede non possiamo che limitarci a quanto indicato dalla legge tenendo conto che le norme di dettaglio sono previste entro sei mesi con decreto ministeriale.
Sui procedimenti disciplinari la legge detta norme, in primo luogo in ordine ai principi della separazione tra funzione istruttoria e funzione giudicante. La prima attribuita, per gli ordini provinciali, a un organismo regionale, denominato “ufficio istruttore di albo” e per le Federazioni nazionali da un “ufficio istruttore di albo” a livello nazionale.
Sono gli uffici istruttori che promuovono il procedimento disciplinare di fronte ai consigli direttivi provinciali per gli ordini monoalbo (solo le ostetriche), e di fronte alle commissioni di albo per gli ordini multialbo. La novità è da salutarsi positivamente e rende più credibile una giustizia anomala, come quella ordinistica, che fino a oggi non ha dato grandi prove di sé.
In secondo luogo la legge detta norme in ordine alla funzione dei procedimenti stessi. La norma, dopo avere richiamato doverosamente i principi della graduazione della sanzione in ordine alla volontarietà della condotta e alla gravità e alla reiterazione dell’illecito tipica di ogni procedimento sanzionatorio, delinea il perimetro dell’illecito disciplinare. Il procedimento sanzionatorio deve infatti tenere conto degli obblighi derivanti dalla “normativa nazionale e regionale vigente e dalle disposizioni contenute nei contratti e nelle convenzioni nazionali di lavoro”.
Qui il legislatore, non si capisce quanto intenzionalmente, cambia radicalmente proprio l’oggetto del giudizio disciplinare circoscrivendolo da un lato e allargandolo dall’altro. Lo circoscrive o, più correttamente, lo delimita proprio dalla funzione che più le sarebbe propria: la funzione deontologica.
Un procedimento, come quello disciplinare, che trovava la sua giustificazione principale, proprio nell’esistenza del codice deontologico e della sua funzione regolativa, non trova alcun riferimento, nella nuova legge ordinistica, proprio nelle violazioni del codice stesso. La legge regolamenta il codice, ma non lo pone alla base dei provvedimenti sanzionatori.
Da un punto di vista dell’interpretazione letterale il procedimento disciplinare non sarebbe più un procedimento di “magistratura deontologica”. Vi è da domandarsi se sia stata una mera dimenticanza del legislatore e quindi rimediabile con una classica operazione di interpretazione logica oppure sia stata una scelta consapevole e voluta. Propenderemo per la prima ipotesi proprio, ancora una volta, per la lettura sistematica di tutta la novella legislativa. Uno strafalcione del legislatore, non può comportare una lacuna così evidente, privando gli ordini professionali del sindacato deontologico che è loro proprio per definizione.
Diverso invece e, decisamente più preoccupante, è l’allargamento del giudizio disciplinare che deve tenere conto (anche diciamo noi) della “normativa nazionale e regionale vigente e dalle disposizioni contenute nei contratti e nelle convenzioni nazionali di lavoro”.
Non si comprende bene la
ratio della disposizione soprattutto rispetto a un collegio giudicante che è composto di soli professionisti sanitari che vengono chiamati a giudicare delle violazioni di leggi e contratti che dovrebbero avere – e hanno! – ben altri giudicanti nel nostro ordinamento giuridico.
Le chiavi di lettura possono essere le più diverse. Vi è chi ne propone una lettura di limitazione della potestà deontologica, come il presidente dell’ordine dei medici di Bologna, il dottor
Giancarlo Pizza, che lamenta il rischio della supremazia tra legge e deontologia e vi può essere chi, come il sottoscritto che è preoccupato per una normazione che trascura il codice deontologico e estende i procedimenti disciplinari alle violazioni di legge e dei contratti.
Non si tratta, come è evidente, di sostituire il giudice ordinario o amministrativo con il giudice ordinistico (ci mancherebbe altro…), ma il giudice ordinistico si aggiunge al giudice ordinario e amministrativo moltiplicando ingiustificatamente i giudizi sullo stesso fatto e con la stessa ottica.
Un professionista dipendente potrebbe avere più giudicanti sullo stesso fatto. In questo caso la magistratura professionale (ex deontologica?) verrebbe inopinatamente estesa da un lato e esautorata dall’altro.
Un pasticcio di cui non si sentiva la mancanza.
Il discutibile mantenimento della Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie
Vi è di più: il mantenimento anacronistico di un organismo come la Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie (CCEPS) come organo di “giurisdizione speciale”.
Già caduta, per la sua composizione che non garantiva l’imparzialità, sotto gli strali della Corte costituzionale, è stata ricostituita nel 2017 presieduta da un magistrato amministrativo. Il resto del collegio giudicante, inoltre, è composto da un dirigente ministeriale nominato su indicazione del Consiglio superiore di sanità e, a seconda delle professioni coinvolte, da cinque professionisti sanitari nominati dalle rispettive Federazioni.
Ora come un organismo del genere, costituito sostanzialmente da “nominati” senza alcuna altra garanzia di competenza e professionalità, debba giudicare in secondo grado, le pronunce della “magistratura professionale” (ex deontologica?) per la violazione (anche?) di leggi e contratti è francamente un mistero. Per altro la violazione di leggi e contratti integra illeciti di carattere civilistico e penalistico e l’unico magistrato presente è un magistrato amministrativo!
La scelta di mantenimento della CCEPS è sbagliata e illogica soprattutto alla luce delle discutibili attribuzioni disciplinari degli ordini riformati o neocostituiti.
Conclusioni
La parte della nuova normativa ordinistica che concerne codici deontologici e procedimenti disciplinari appare confusa e contraddittoria.
Non sembra che queste carenze possano essere rimediate da atti regolamentari. Serve, nella prossima legislatura, un provvedimento correttivo del legislatore.
Luca Benci
Giurista
Leggi la prima parte del commento di Benci alla riforma degli Ordini