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QS Edizioni - venerdì 22 novembre 2024

Governo e Parlamento

La riforma Madia, la Corte costituzionale e il referendum

di Luca Benci
immagine 27 novembre - Le censure di illegittimità costituzionale si sono incentrate non sul merito quanto sul metodo, con particolare riferimento alla necessità di concertare, con la Conferenza Stato Regioni, tali disposizioni, E a mio avviso  il referendum costituzionale di domenica 4 dicembre non sembra spostare, istituzionalmente, il problema
La Corte costituzionale – sentenza 9 settembre 2016, n. 251 – ha statuito l’illegittimità costituzionale di buona parte della c.d. “riforma Madia”: legge 7 agosto 2015, n. 124 “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”.
 
Trattasi quindi di classica legge delega che trasferisce al Governo l’onere di legiferare, attraverso l’emanazione di decreti legislativi, entro un certo periodo di tempo, per regolamentare una serie di materie.
 
La riforma Madia non ha, infatti, un contenuto strettamente omogeneo e interviene in vari campi come la “carta digitale”, la semplificazione di alcuni procedimenti, alcune norme sull’organizzazione dello Stato, le Camere di commercio e altri provvedimenti.
 
Per quanto ci riguarda, di particolare interesse e, oggetto di censura da parte della Suprema Corte, troviamo le norme sulla dirigenza sanitaria apicale e le norme sul pubblico impiego.
 
Per la prima la delega era stata già esercitata con il D. Lgs 4 agosto 2016, n. 171 e entrato in vigore il 18 settembre 2016 in attuazione a una serie di principi indicati dalla legge delega: istituzione di un albo unico nazionale di idonei  previa selezione da parte di una commissione nazionale con indicazione dei relativi requisiti. Il decreto riguarda i direttori generali (per l’albo nazionale) e anche, con modalità e indicazioni diverse, i direttori sanitari e amministrativi.  Il  sito web del ministero, erroneamente, chiama l’atto normativo, semplicisticamente, come decreto sui “direttori sanitari”.
 
Per le norme sul pubblico impiego era ed è previsto – la delega scade a febbraio – un intervento sui campi più “disparati” secondo l’espressione utilizzata dalla Corte costituzionale: concorsi, procedimenti disciplinari, rilevazione delle competenze, valorizzazione del titolo di dottore di ricerca, riordino dei sistemi di controllo di malattia, introduzione di forme di lavoro flessibile e altro.
 
Questi decreti non risultano ancora emanati eccezion fatta per il decreto c.d. “furbetti del cartellino”, D.Lgs 116/2016, su cui, per altro, avrebbero potuto pesare altri profili di costituzionalità vista la sproporzione di sanzioni previste.
 
Le censure di illegittimità costituzionale si sono incentrate non sul merito quanto sul metodo, con particolare riferimento alla necessità di concertare, con la Conferenza Stato Regioni, tali disposizioni.
 
Non si tratta del classico conflitto Stato/Regioni sulle materie di legislazione concorrente e dell’invasione delle relative competenze. Come è noto, con la riforma del titolo V del 2001, si è operata una modifica costituzionale introducendo una serie di materie comuni tra Stato e Regioni: la competenze concorrente appunto. In una serie di materie lo Stato determina i “principi generali” e le Regioni indicano le norme di dettaglio.
 
Si tratta invece delle “competenze residuali” delle Regioni indicate dall’articolo 117 comma 4 della Costituzione. Materie che sono e rimarranno in capo alle Regioni qualunque sia l’esito del referendum del prossimo 4 dicembre.
 
La Corte riconosce, infatti, allo Stato la competenza a intervenire sul rapporto di lavoro e sulla sua disciplina dei dipendenti pubblici. Laddove però questi dipendenti pubblici, non siano statali, ma regionali o del Servizio sanitario regionale ecco allora che si investe la competenza diretta delle Regioni.
 
Hanno specificato i supremi giudici che:
“Tali competenze si pongono in un rapporto di “concorrenza”, poiché nessuna di esse prevale sulle altre, ma tutte confluiscono nella riorganizzazione del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in una prospettiva unitaria, rivelandosi inscindibili e strumentalmente connesse”.
 
Alcune letture superficiali della sentenza hanno portato a enfatizzare il termine “concorrenza” utilizzato dalla Corte, non a caso tra virgolette. Non si tratta, ripetiamo, di competenza concorrente classica visto che gli stessi giudici citano il quarto comma dell’articolo 117 della Costituzione indicante le competenze regionali residuali (e quindi non concorrenti).
 
Nel progetto di revisione costituzionale del Governo la competenza  a intervenire sulla normativa dei dipendenti pubblici si estende dagli enti pubblici nazionali ai dipendenti delle “amministrazioni pubbliche” in modo da assicurarne l’uniformità sul territorio nazionale.
 
Competenza che la Corte aveva già ricondotto alla materia “ordinamento civile” già di competenza esclusiva dello Stato. La competenza residuale nel progetto governativo rimane per le materie non espressamente indicate dalla Costituzione nella competenza esclusiva dello Stato.
 
L’intervento del legislatore statale è legittimo solo se, in nome del principio della “leale collaborazione” tra Stato  e Regioni – ai sensi degli articoli 5 e 120 Costituzione – i decreti legislativi vengono emanati tramite una “intesa” e non tramite una semplice “consultazione”.
 
Si tratta di un punto di non poco rilievo. L’intesa presuppone un accordo tra le parti, senza il quale il decreto non può essere emanato, mentre la consultazione presuppone un processo di mero ascolto facendo rimanere in capo al Governo la responsabilità dei contenuti del decreto.
 
La Corte chiosa dicendo che il luogo naturale per l’intesa è la Conferenza Stato Regioni.
 
Conseguenze

Stante l’illegittimità costituzionale delle legge delega decadono anche gli atti conseguenti. Privi di validità,  quindi, risultano il decreto sui direttori generali e anche il decreto c.d. “furbetti del cartellino” recante una parziale modifica dei procedimenti disciplinari.
 
In secondo luogo per potere riemanare il decreto sui direttori generali diventa necessaria una modifica legislativa che riattribuisca un termine per l’esercizio della delega al Governo, ferme restando le disposizioni della Corte in merito alla necessità dell’intesa con la Conferenza Stato Regioni.
 
Per quanto riguarda il pubblico impiego e le sue “disparate” norme da attuare la delega scade a febbraio e quindi, teoricamente, non vi è bisogno di un nuovo intervento legislativo sulla legge “madre”. Sarebbe sufficiente emanare decreti legislativi concertati.
I tempi, però, appaiono molto ristretti – anche perché non risultano ancora conosciute neanche le bozze dei decreti -, l’ampiezza delle materie previste dalla delega e l’imminenza della pausa natalizia, ci portano a dire che molto difficilmente potranno vedere la luce entro febbraio.
 
Una cosa è certa: il referendum costituzionale di domenica 4 dicembre non sembra spostare, istituzionalmente, il problema. In quella data voteremo, infatti, per l’abolizione o meno delle legislazione concorrente.
 
Qualunque sia l’esito del referendum, nonostante contrarie errate affermazioni, i principi di leale collaborazione rimangono intatti e rappresentano il cuore della sentenza che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della riforma Madia visto che, comunque, rimarrebbero alle Regioni le competenze in materia di “organizzazione” del Servizio sanitario regionale: difficile non ricomprendere, nella “leale collaborazione”, le risorse umane direttamente dipendenti dalla Regione.
 
Ripetiamo è di competenza esclusiva dello Stato intervenire sulla materia del pubblico impiego statale, diventa obbligatorio concertare il decreto legislativo di attuazione laddove si regolamentano materie che riguardano dipendenti pubblici non statali per il principio sopra riportato. Nessuna competenza, invece, sembra essere attribuita al Senato dalla legge di revisione costituzionale.
 
L’unica differenza potrebbe essere, in caso di passaggio della legge di revisione costituzionale, l’esercizio della c.d. “clausola di supremazia” che lo Stato potrebbe esercitare legiferando direttamente sulle materie esclusive delle Regioni invocando un imprecisato “interesse nazionale” ed esautorando le Regioni stesse.
 
Non vi  sono dubbi, però, sul fatto che le conseguenze politiche saranno rilevanti. In caso di vittoria del Si il parlamento riattribuirà la delega al Governo, in caso di vittoria del No questa parte della riforma Madia verrà totalmente abbandonata.
 
Luca Benci
Giurista
27 novembre 2016
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