Premessa
Nel dibattito politico e parlamentare è esplosa la questione dei diritti delle unioni omoaffettive e, più in generale, delle unioni non legate dal vincolo del matrimonio.
Il riconoscimento dei diritti si è fatto pressante anche in seguito alla condanna al nostro Paese da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo proprio sul mancato riconoscimento dei diritti delle coppie e delle famiglie omoaffettive. Sul primo punto la scelta fino a oggi perseguita non è quella del “matrimonio egualitario” con l’estensione dei diritti matrimoniali alle persone dello stesso sesso, ma la creazione di un nuovo istituto: le “unioni civili”.
Il ddl Cirinnà distingue tra le “unioni civili” tra persone dello stesso sesso e l’istituto – o sarebbe meglio dire la condizione – della “convivenza di fatto” riferito alle coppie omo e eterosessuali non sposate.
Possiamo anticipare che mentre la scelta politica di non perseguire l’idea del “matrimonio egualitario” è stata operata nel tentativo di venire incontro alle preoccupazioni formulate da parte di chi fa riferimento agli insegnamenti del magistero cattolico – secondo alcuni più che venire incontro è un “compromesso al ribasso” – da un punto di vista normativo il nuovo istituto rischia di creare, nell’operatività delle strutture sanitarie, delle contraddizioni non secondarie.
Le unioni civili vengono definite, con una forzatura del dettato costituzionale, “formazioni sociali specifiche” intendendosi per tali le instaurazioni di rapporti tra persone dello stesso sesso da effettuarsi mediante “dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile e alla presenza di due testimoni”. La prova dell’unione civile è rappresentata da un “documento attestante la costituzione dell’unione” che conterrà i dati anagrafici delle parti, le indicazioni del loro regime patrimoniale e i dati anagrafici dei testimoni.
Le parti possono decidere di assumere un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi, oppure se diverso anteporre o posporre il proprio cognome al cognome comune.
Si applicano alle unioni civili una serie di articoli del codice civile che regolamentano il matrimonio. Inoltre si applicano le disposizioni riguardanti i poteri e i doveri del coniuge in merito ai procedimenti per l’amministratore di sostegno e l’interdizione. Più in generale laddove nella normativa – legislativa, regolamentare e contrattuale - ricorrono le parole “coniuge” , “coniugi” o termini equivalenti si applicano anche a “ognuna delle parti dell’ unione civile tra persone della stesso sesso”.
Questo principio non si applica alla legge sulle adozioni (legge 184/1983). Sempre sulla legge sulle adozioni il ddl Cirinnà prevede la modifica dell’art. 44 per l’istituto dell’adozione “in casi particolari”.
Quella che giornalisticamente viene chiamata, con riferimento alle esperienze internazionali,
stepchild adoption. Si permette l’adozione del figlio dell’appartenente all’unione civile all’altro membro dell’unione civile.
Il capo II del disegno di legge prevede, invece, la regolamentazione delle “convivenze di fatto” previste per le unioni omo ed eterosessuali “unite stabilmente da legami affettivi di coppia” e non vincolate da “rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”. Il requisito della convivenza di fatto è lo stesso requisito della “famiglia anagrafica”.
Per quanto concerne inoltre la regolamentazione della disciplina della “convivenza di fatto” si riconoscono diritti “sanitari” i cui richiami sono difficoltosi per la mancata regolamentazione proprio di tali diritti.
Le ripercussioni in ambiente sanitario dal riconoscimento dei diritti
Andiamo per gradi. Il ddl Cirinnà, per quanto concerne le persone unite con il vincolo dell’unione civile, stabilisce, come abbiamo visto, un principio generale:
Le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso.
Pur non utilizzando il termine “matrimonio” quindi spettano loro, nella normativa vigente, i diritti (non tutti, sono esclusi gli articoli del codice civile non espressamente richiamati) spettanti al “coniuge” del matrimonio eterosessuale.
Quali possono essere le ripercussioni nell’operatività sanitaria in seguito al riconoscimento di questi diritti?
Spesso si sono utilizzati i diritti sanitari per denunciare discriminazioni che affondavano le radici altrove e non sempre in ambito sanitario. Le persone appartenenti alle unioni civili acquisirebbero i diritti dei coniugi senza specificare ulteriormente la natura di tali diritti che invece vengono dettagliati per i “conviventi di fatto”.
I conviventi di fatto (e solo il convivente di fatto e non anche l’appartenente alle unioni civili vista la sostanziale assimilazione al coniuge) in caso di malattia o di ricovero “hanno diritto reciproco di visita, di assistenza nonché di accesso alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di assistenza pubbliche, private o convenzionate, previste per i coniugi e i familiari”.
In primo luogo dunque si stabilisce il “diritto di visita” e il “diritto di assistenza durante il ricovero”. Vi è da domandarsi se tali diritti siano oggi negati e, soprattutto, se qualcuno (operatore sanitario o istituzione) abbia il diritto, a normativa vigente, di operare questo tipo di discriminazione. La risposta è assolutamente negativa. Il diritto di visita e di assistenza non può essere limitato ai soli familiari o solo a coloro che sono legati tra di loro da un rapporto di “coniugio”.
L’altro punto interessante su cui concentrare la nostra attenzione è relativo al riferimento al diritto di “accesso alle informazioni personali” che introduce il ddl Cirinnà.
I diritti di informazione, però, sono in capo alla persona assistita, in modo del tutto indipendente da legami familiari e personali, e possono essere negati anche al coniuge del matrimonio eterosessuale. Solo in caso di consenso alla comunicazione dei dati sensibili ai sensi della normativa sulla riservatezza dei dati, il medico o altro esercente la professione sanitaria, può comunicare tale tipologia di dati. Si pensi al diritto di negare l’informazione anche di stati clinici rilevanti – per i rapporti sociali e intimi che ne sono correlati – come lo stato di sieropositività Hiv, per fare un esempio tra i più rilevanti.
E’ la stessa persona che decide da chi vuole farsi visitare, da chi vuole farsi assistere e con chi condividere la comunicazione dei dati sensibili. L’essere sposato non aggiunge e non toglie diritti di autodeterminazione.
Per altro, lo stesso consenso al trattamento dei dati personali, può essere prestato, in caso di impossibilità fisica e di incapacità di intendere e di volere, da un “convivente” che specifica l’art. 82 della legge sulla privacy.
Inoltre, sempre con riferimento ai “conviventi di fatto”, il ddl Cirinnà specifica che può “designare l'altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati:
a) in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute;
b) in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie”.
Oscuro e non ben chiaro è il riferimento alla facoltà di designare, come “proprio rappresentante con poteri pieni o limitati” il convivente di fatto. Vi è, anche in questo caso da domandarsi se questa facoltà sia riconosciuta o negata ai “coniugi” e se sia solo una loro prerogativa.
Come è noto il nostro paese soffre la totale mancanza di normative riguardanti il consenso informato, il testamento biologico e le disposizioni di fine vita in generale.
Ad oggi si discute se una figura che si è ormai incardinata all’interno del nostro ordinamento giuridico, come l’amministratore di sostegno, abbia o meno il potere di rifiutare le cure per la persona beneficiaria, se abbia o meno gli stessi poteri riconosciuti al “tutore”. Per altro, interdizione e amministrazione di sostegno, sono istituti regolamentati dal codice civile e che vedono l’intervento giurisdizionale non previsto dal nuovo “rappresentante” delle “convivenze di fatto” (questo istituto non estensibile però alle unioni civili a cui si applicano le regole del matrimonio).
La nomina del rappresentante è infatti “effettuata in forma scritta e autografa oppure, in caso di impossibilità di redigerla, alla presenza di un testimone”. Il riferimento però è preciso: “in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e volere”. Non vi è dubbio che così come viene formulata si tratterebbe di una vistosa deroga al codice civile. Si vuole realmente introdurre qualcosa di diverso da quanto già disposto dal nostro ordinamento codicistico?
In questo caso la discriminazione – che il ddl Cirinnà meritoriamente contrasta – non era presente. L’istanza di interdizione e di amministrazione di sostegno, infatti, può essere promossa, oltre che dal coniuge anche dalla “persona stabilmente convivente” (art. 417 cc).
“Persona stabilmente convivente” senza indicare se di sesso eguale o diverso. L’unica lacuna, che il ddl Cirinnà giustamente si occupa di colmare, è relativa ai requisiti per essere nominati amministratori di sostegno estesi anche ai conviventi di fatto.
Più comprensibile è invece il punto b) del terzo comma dell’articolo 12:
b) in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie.
Anche la normativa sulla donazione di organi attribuisce in capo alla persona la facoltà di decidere sul proprio corpo. L’unico rilievo delle prerogative dei familiari è la facoltà di presentare una dichiarazione “autografa” del soggetto di cui si è accertata la morte che attesti la contrarietà al prelievo di organi. Facoltà di opposizione estesa anche ai conviventi di fatto. Del tutto comprensibili invece le norme sulle disposizioni delle “celebrazioni funerarie”.
Il riconoscimento del diritto di adozione
Il ddl Cirinnà, come evidente forma di compromesso politico, limita l’adozione degli appartenenti alle coppie omoaffettive legate in unione civile alle adozioni “in casi particolari”, integrando la legge generale sulle adozioni e introducendo la c.d.
stepchild adoption: l’adozione del figlio dell’altro appartenente all’unione civile (non anche, quindi, ai conviventi di fatto).
Solo adozioni in casi particolari e non procedure ordinarie di adozione.
Resisterebbe quindi questa forma di discriminazione basata sull’orientamento sessuale che verrebbe attenuata dall’adozione “in casi particolari” come la
stepchild adoption. Usiamo il condizionale, perché alcuni emendamenti vorrebbero ulteriormente affievolire il regime dei diritti, questa volta a scapito direttamente del minore, attraverso la creazione di un non meglio precisato “affido rafforzato”.
Si tratterebbe di un sostanziale ritorno al passato laddove normativamente la distinzione si operava tra figli legittimi, illegittimi, naturali e, financo, procreativi scordando il grande passo avanti che il nostro codice civile ha operato recentemente abolendo queste odiose distinzioni. Sarebbe realmente contraddittorio che una legge che vuole eliminare o quantomeno attenuare le diseguaglianze ne crei una nuova.
Non si può non concordare con chi autorevolmente afferma (
Stefano Rodotà, Repubblica 4/01/2016) che “il paradigma eterosessuale crea ormai incostituzionalità e di questo si deve tener conto quando si contesta l’ammissibilità dell’accesso delle coppie tra persone dello stesso sesso al matrimonio egualitario di cui oggi non si vuol nemmeno discutere” creando, ad hoc, situazioni che rischiano di creare nuove discriminazioni.
Se la
stepchild adoption viene approvata così come è stata licenziata dalle commissioni parlamentari sarebbe comunque un passo avanti positivo: non certo il massimo per una nuova legge che non colma il divario con i più avanzati paesi occidentali. Nell’operatività sanitaria il minore adottato anche dall’altro appartenente all’unione civile avrebbe quindi la doppia figura genitoriale a cui fare riferimento in termini di informazione, consenso e decisione delle cure. In caso di assenza del genitore biologico e/o genetico le decisioni passerebbero, in via esclusiva, al genitore adottivo della coppia omosessuale.
Altri diritti
Per gli appartenenti alle unioni civili – solo per loro e non anche per i conviventi di fatto – si apre l’estensione ai permessi della legge 104/1992 previste per la disabilità ma non anche per i conviventi di fatto con la conseguenza, in questo caso, di discriminare il disabile.
Di minore impatto dovrebbe invece essere l’estensione di alcuni diritti contrattuali – si pensi ai permessi per lutto – che gli stessi contratti già riconoscono ai conviventi.
Conclusione
Pur nelle contraddizioni denunciate e in un testo che non brilla per innovatività e coraggio e pur mantenendo il nostro paese in una situazione di arretratezza dei diritti il ddl Cirinnà rappresenterebbe, comunque, un importante passo politico che permetterebbe la fine di una parte delle discriminazioni presenti.
Bisogna tenere conto che il legislatore agisce “costretto” dalle condanne internazionali che, a vario titolo, giungono sull’Italia e non agisce esattamente
motu proprio.
Ne beneficeranno, relativamente, anche i diritti sanitari che però scontano una loro arretratezza che, spesso, non discrimina in base all’orientamento sessuale ma egualitariamente tutti i cittadini. Un esempio per tutti: la difficoltà di rendere operative ed esplicite le cure di fine vita.
Luca Benci
Giurista