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QS Edizioni - domenica 24 novembre 2024

Governo e Parlamento

I risk manager della Toscana a Gelli: “Gli audit restino fuori dalle indagini giudiziarie”

di R.Tartaglia, S.Albolino, T.Bellandi, G.Toccafondi, M.Tanzini
immagine 14 dicembre - Il dibattito sul rischio clinico si è concentrato essenzialmente sulla questione della responsabilità civile e penale tralasciando altri aspetti di grande rilevanza per la sicurezza delle cure introdotti dall ddl. Eppure è proprio su questi articoli che si gioca gran parte della partita, con l’obiettivo di ridurre gli eventi avversi e i risarcimenti. Si coinvolgano anche gli infermieri nella gestione del rischio clinico.
Di seguito la lettera inviata all'onorevole Gelli dai responsabili del Centro Gestione Rischio clinico e Sicurezza del Paziente Regione Toscana:
 
Caro On. Gelli,
il lavoro che ha svolto come relatore per portare a conclusione il disegno di legge sulla responsabilità professionale è stato notevole e ci auguriamo che tutti le riconosceranno, quando sarà approvato,  il merito di aver contribuito in modo così determinante a dare al ns Paese una nuova norma più moderna e adeguata ai cambiamenti avvenuti in questi anni nella società e quindi nel Servizio Sanitario Nazionale. Il percorso era difficilissimo trattandosi di garantire la sicurezza e qualità delle cure e il diritto al giusto risarcimento del cittadino, la prima vittima di un evento avverso,  ma anche tutelare le seconde vittime, i professionisti e tutti gli operatori sanitari che si trovano a vivere una situazione del genere. Se poi aggiungiamo a queste difficoltà la pressione di innumerevoli portatori d’interesse (compagnie assicurative in primis, ordini professionali e associazioni di cittadini in seconda istanza) ma anche dei movimenti giustizialisti, tutto diventa ancora più difficile.
 
Il dibattito sul disegno di legge si è concentrato essenzialmente sulla questione della responsabilità civile e penale tralasciando altri aspetti di grande rilevanza per la sicurezza delle cure introdotti dalla norma ma sui quali il dibattito è stato meno acceso. Eppure è proprio su questi articoli che si gioca gran parte della partita, con l’obiettivo di ridurre gli eventi avversi e i risarcimenti. Forse è opportuno ricordare, sono dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che un paziente su dieci che entra in ospedale va incontro a un evento avverso nella metà dei casi prevenibile, i risarcimenti rappresentano una fonte di spesa assolutamente non trascurabile per i nostri ospedali che non dovrebbe comunque mai essere anteposta ai costi umani. Ci riferiamo in particolare agli artt 1 e 2 che hanno definito le attività per gestire la sicurezza del paziente e quindi stabilito il dovere etico per le strutture sanitarie di prevenire e controllare il rischio clinico; agli artt. 3, 4 e 5  che hanno dato un assetto organizzativo alla gestione della sicurezza delle cure e hanno rimarcato l’importanza della trasparenza dei dati per consentire al cittadino scelte sempre più consapevoli e basate su dati oggettivi, rispetto a chi affidare la propria salute, introducendo indirettamente una  competizione al miglioramento della qualità delle cure; all’art. 13 mirato a migliorare la qualità delle consulenze tecniche.
 
Vorremmo però invitarla a riconsiderare un paio di questi articoli che, a nostro modesto parere, ma anche di altri esperti della materia non sono del tutto convincenti. Non affronteremo invece le questioni più strettamente legate agli aspetti giuridici dei restanti articoli del ddl. Per scrivere la norma ci risulta si sia avvalso dei maggiori esperti giuridici a livello nazionale e non vorremmo associarci a un dibattito su una materia così complessa, a cui farebbero bene ad astenersi, per non aumentare il rumore di fondo, tutti quelli che non hanno competenze specifiche in materia.
 
Il primo punto riguarda il coordinamento della gestione del rischio clinico. Tra i fondatori della gestione del rischio clinico a livello internazionale ci sono molti ricercatori non medici (Charles Vincent, James Reason, Pascale Carayon, John Ovretveit ecc.). Peraltro in molti Paesi europei sono gli infermieri, gli psicologi o i sociologi a coordinare la gestione del rischio clinico, si tratta di professionisti che sul management della qualità e sicurezza dell’assistenza hanno avuto una apposita formazione e sviluppato specifiche competenze (1). A nostro parere le attività di gestione del rischio clinico devono essere incardinate nell’ambito dei sistemi di gestione della sicurezza e qualità, con una distinzione  in due ambiti: le attività cliniche di analisi degli eventi avversi da porre in capo ad operatori sanitari esperti sia nel proprio ambito specialistico che nell’analisi sistemica, le attività manageriali per la sicurezza delle cure e il miglioramento della qualità dovrebbero essere aperte a professionisti di area psico-sociale e politecnica. In entrambi i casi è casi è necessaria un’esperienza almeno triennale sulla materia, con specifica e adeguata formazione secondo i principi del curriculum dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per la sicurezza delle cure.
 
La sicurezza del paziente è infatti basata sulla scienza dell’ergonomia e fattore umano che è transdisciplinare e richiede l’intervento di professionisti diversi per rispondere alla complessità delle sfide poste dai sistemi sanitari. Credo che non conti tanto il curriculum di base quanto il grado di specializzazione rispetto alla tematica specifica che un professionista si è riuscito a costruire, al fine di potergli affidare una posizione di coordinamento sui temi della qualità e sicurezza delle cure. La recente letteratura fa uno specifico riferimento a varie competenze disciplinari per affrontare i problemi presenti nelle strutture sanitarie.
 
In questo modo si potrebbe inoltre estendere il campo di applicazione della normativa all’area socio-sanitaria, che non può più essere isolata dal legislatore e dai gestori dei servizi, in quanto le persone assistite nelle strutture residenziali, diurne o a domicilio hanno sempre bisogni di salute rilevanti e con essi anche rischi significativi da prevenire, come le cadute, gli errori di terapia o le infezioni correlate all’assistenza. Pertanto, ci auguriamo di poter leggere di nuovo nel testo finale il termine “Sicurezza delle cure” al posto del vetusto “Sicurezza sanitaria”, centrato sulla struttura e non sulle persone assistite e quindi politicamente poco efficace.
 
Il secondo punto riguarda il non uso a fini giudiziari della documentazione prodotta nell’ambito dei sistemi di reporting&learning. Il riferimento all’art. 220 del codice di procedura penale non è chiaro come possa salvaguardare i sistemi di reporting&learning da un loro impiego contro gli stessi operatori sanitari chiamati a segnalare i propri errori anche dal codice deontologico. E’ ovvio che se gli audit dovessero essere condotti come un’indagine giudiziaria perderebbero ogni valore di apprendimento tra pari e di conoscenza dei fattori organizzativi che hanno contribuito a determinare l’evento avverso. Su questo punto vorremmo qualche garanzia, è troppo importante per la sicurezza delle cure nel nostro Paese.
 
Il rischio è di rimanere fuori dai sistemi sanitari europei più evoluti dove hanno fatto propri i principi  della raccomandazione del Consiglio d’Europa del 9 Giugno 2009 e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (2), in cui si sancisce che i sistemi di reporting&learning sono sistemi informativi interni alle organizzazioni sanitarie, finalizzati all’apprendimento continuo ed al miglioramento della sicurezza, esattamente come avviene anche nel nostro Paese in altri sistemi complessi come quello, ad esempio, del trasporto aereo. Questo riferimento al codice penale contrario allo spirito della norma  sancito nell’articolo 1 sarebbe un arretramento culturale veramente imbarazzante per il nostro paese.
 
Sappiamo che lei insieme ad altri giuristi di fama avrebbe voluto maggiore chiarezza su questo punto, ma il giustizialismo di alcune parti politiche e l’atteggiamento di resistenza di alcuni settori della burocrazia ministeriale rischiano di minare alla base i principi della norma. Mi auguro che il dibattito parlamentare consenta di introdurre un emendamento sulla non utilizzabilità a fini giudiziari e disciplinari delle informazioni prodotte nell’ambito dei sistemi di reporting&learning.
 
La magistratura potrà acquisire tutta la documentazione che vuole, ma diamo la possibilità agli operatori sanitari di imparare dai propri errori, nell’interesse primario della salute dei cittadini. Auspichiamo che anche i parlamentari meno preparati su questa materia comprendano l’importanza di questo principio.
 
Sul resto del disegno di legge ci auguriamo che il dibattito parlamentare porti a dei miglioramenti e soprattutto eviti di rigenerare dei sistemi assicurativi che, come avvenuto in passato, portino ad aumenti dei premi sulle spalle dei professionisti e della collettività. La sanità è una organizzazione complessa e le competenze su come ridurre il rischio clinico stanno solo ed esclusivamente negli operatori sanitari, rischio clinico ed economico devono essere trattati contestualmente, sarebbe importante creare delle authority regionali o nazionale che se ne occupino, introducendo una logica “no-fault” per l’indennizzo degli incidenti più gravi sul modello di quanto accade in altri paesi europei.
 
Cogliamo l’occasione per farle tanti auguri per il successo del ddl. Se riusciremo in questo obiettivo crediamo che sarebbe veramente un grande risultato per il nostro Paese e a lei andrà il merito maggiore.
 
Riccardo Tartaglia
Sara Albolino
Tommaso Bellandi
Giulio Toccafondi
Michela Tanzini
 
Centro Gestione Rischio clinico e Sicurezza del Paziente Regione Toscana
 
(1) Nuti S, Tartaglia R, Niccolai. Rischio clinico e sicurezza del paziente. Modelli e soluzioni nel contesto internazionale. Ed. Il Mulino 2007.
(2) WHO Draft Guidelines for Adverse Event Reporting and Learning Systems, World Health Organisation, 2005.
14 dicembre 2015
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