Negli ultimi 5 anni si è creato un progressivo consenso, sia nella comunità scientifica nazionale, che nell’opinione pubblica, circa la necessità di porre fine alla realtà degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG). Le motivazioni alla base di questa scelta sono state di varia natura e non solamente di tipo scientifico o giuridico, anzi, più spesso di tipo emotivo, politico ed ideologico. Certo è che la realtà dei malati internati in OPG ha costituito per circa 30 anni, dall’epoca della chiusura dei “manicomi”, una sorta di
black box sia per i medici che per i comuni cittadini.
Le persone che si trovano ristrette in OPG sono malati mentali ai quali è attribuito, tramite un provvedimento della Magistratura basato su un parere psichiatrico, un certo grado di “pericolosità sociale”. Si tratta per lo più di soggetti di sesso maschile, affetti da disturbi mentali gravi: psicosi a carattere schizofrenico, disturbi di personalità, disturbi dell’umore, oltre a condizioni neuropsichiatriche varie. Questi soggetti hanno commesso uno o più reati in relazione ai quali sono stati riconosciuti affetti da un vizio totale o parziale di mente ed, inoltre, socialmente pericolosi dal punto di vista psichiatrico, ovvero si considera elevato il rischio di una recidiva di condotta antisociale. Tali valutazioni sono costantemente introdotte, all’interno del processo penale, da una perizia di tipo psichiatrico forense effettuata sul reo. Va precisato come la natura dei reati commessi sia la più svariata, si va da reati minori a delitti gravissimi. Sebbene quest’ultimi in verità non siano molto frequenti, la percentuale di persone che hanno commesso un omicidio o un tentato omicidio in questa popolazione non riflette la popolazione carceraria generale, essendo decisamente più rappresentati che nelle carceri ordinarie.
Il nostro sistema penale prevede, infatti, che chi nel momento in cui ha commesso un reato non era capace di intendere o di volere a causa di una patologia (“infermità”), non possa essere considerato responsabile di quel reato e, pertanto, non possa essere né vada punito. Ove vi sia il rischio che la patologia che ha determinato il reato si manifesti nuovamente in futuro con la commissione di nuovi reati, vige però il principio della tutela della comunità, per cui tali soggetti sono ritenuti socialmente pericolosi in senso psichiatrico e vengono sottoposti ad una misura di sicurezza. Quest’ultima può essere di tipo detentivo, appunto il ricovero in OPG o in casa di cura e custodia (e tra breve il possibile internamento nelle REMS – Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, previsti dalla L. 9/12), ovvero di tipo non detentivo, in particolare la libertà vigilata.
Non avendo un aspetto punitivo, né retributivo,
le misure di sicurezza sono state concepite in primis per curare e riabilitare il reo affetto da vizio di mente e socialmente pericoloso, quindi
per tutelare il resto della popolazione da possibili agiti violenti o, comunque, da ulteriori fatti reato legati alla malattia mentale. Occorre ammettere che gli OPG hanno assolto alla seconda funzione egregiamente.
Qui si apre un
primo dubbio relativo alla capacità delle strutture alternative, le cosiddette REMS, di assicurare pari garanzie. Al contrario, sul primo punto, ossia sulla efficacia di cura e riabilitazione, occorre parimenti affermare come i risultati siano stati molto parziali, se non francamente deludenti. Non vi sono dati scientifici, tuttavia, che chiariscano né l’entità di tali scarsi risultati né, drammaticamente, le cause di tale inefficacia.
Il legislatore ha ritenuto, tra le altre cose, di individuare nella natura stessa degli OPG la fonte del mancato successo terapeutico, anche alla luce di oggettive gravità di tipo logistico frequentemente riscontrate anche da chi scrive. Non si tratta propriamente di luoghi che neppure lontanamente somigliano a un reparto ospedaliero, ad una clinica, né ad una comunità terapeutica-riabilitativa, eccezion fatta per la mera presenza di pazienti.
Purtroppo, allo stato delle cose non sembra essere stata presa in considerazione l’ipotesi che l’inefficacia terapeutica possa essere legata anche a caratteristiche di gravità intrinseche di alcuni pazienti internati. Ciò contrasta con accreditate teorie criminologiche e psichiatrico forensi.
L’ipotesi che, quanto meno in un certo numero di casi, per quanto si voglia limitato, la pericolosità sociale in senso psichiatrico sia legata alle peculiari caratteristiche psicopatologiche non pare essere stata vagliata. Purtroppo la realtà clinica suggerisce che alcuni pazienti affetti da un grave disturbo mentale, nonostante le cure, ovvero a causa di una cronica assenza di consapevolezza di necessità di cure, che vengono pertanto interrotte, continuano a presentare gravi fasi di scompenso ciclicamente nel corso della vita.
Eppure, anche volendo ragionare in un’ottica non basata su evidenze scientifiche i numerosi casi di cronaca legati alla commissione di nuovi delitti in malati che parevano essere “guariti”, a un’analisi superficiale o fallace, ovvero reinseriti in società con modalità inappropriate, dovrebbe fare riflettere.
Tale contraddittorio approccio legislativo si è appalesato in particolare in una disposizione prevista dalla
Legge 81 del 30 maggio 2014, in tema di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, laddove pone un preciso limite di tempo alle misure di sicurezza provvisorie o definitive, fissandolo nella pena edittale massima per il reato commesso, escludendo peraltro l’ergastolo.
Viene a cadere, quindi, la possibilità di considerare come persistentemente socialmente pericoloso in senso psichiatrico un malato che, al termine del periodo previsto, potrebbe purtroppo manifestare livelli di scompenso e gravità del tutto analoghi, o anche maggiori, a quelli mostrati al momento della commissione del reato. Non solo, riteniamo che la conseguenza sia che il soggetto non può che rientrare in un regime di piena libertà.
Nasce quindi il problema di chi, come, e con quali strumenti abbia in capo il dovere di vigilare, garantire la sicurezza del malato, la sicurezza della comunità, la cura di questi malati. Forse solamente quest’ultimo punto è di chiara definizione, nel senso che certamente il dovere di cura è in capo agli psichiatri. Come ci si dovrà comportare, tuttavia, con soggetti liberi, già giudicati socialmente pericolosi e, caso non infrequente non inclini a curarsi, è una problematica tutta da definire.
Lo strumento del Trattamento Sanitario Obbligatorio è intrinsecamente inadeguato a gestire situazioni che vadano al di fuori dell’emergenza e non è giuridicamente strutturato per gestire il problema della pericolosità, essendo una extrema ratio per trattare malati acuti che necessitano di cure urgenti. Per giunta la presenza di queste persone nei raparti psichiatrici ordinari porrebbe immediati problemi di gestione organizzativa e sarebbe fonte di possibili conflitti.
Alcuni giuristi hanno invocato il mantenimento della legittimità di misure di sicurezza non detentive, quali la libertà vigilata, anche al termine del periodo della pena edittale, pur con perplessità di tipo giuridico: infatti, quale sarebbe la base normativa su cui applicare una misura di sicurezza, sebbene non detentiva ad una persona?
In realtà limitare la possibilità di valutazione, e di estensione del giudizio di pericolosità sociale psichiatrica, al termine della pena edittale stride fortemente con un’impostazione che storicamente aveva condivisibilmente separato ab origine i soggetti autori di reato da punire (delinquenti) con quelli da curare (infermi). Applicare a quest’ultimi un iter giudiziario giustamente differente, anche improntato alla cura, per poi affermare che lo stesso debba necessariamente terminare nello stesso momento in cui lo sarebbe stato per un soggetto imputabile, quindi responsabile, pare davvero confondente.
Peraltro, nella molteplicità di proposte e nella ridda di ipotesi su come organizzare la gestione di queste persone,
non è stata mai avanzata una ipotesi di valutazione della capacità al consenso al trattamento, ovvero si manca della criteriologia a monte per stabilire se la persona sia o meno in grado di avere consapevolezza della necessità delle cure. La questione non è marginale, dal momento che il consenso informato è centrale ad ogni tipo di relazione medico paziente. È legittimo interrogarsi su come sia possibile trattare persone che, pur non necessitando di un TSO, non sono in grado di fornire un consenso al trattamento, non esistendo una norma civilistica intermedia o dovendo ricorrere all’Amministratore di Sostegno con facoltà di esprimere il consenso informato al trattamento al posto dell’amministrato, misura protettiva di non agevole applicazione.
La realtà dei fatti indica che a pochissimi mesi dalla data prevista dalla legge per la chiusura degli OPG persistono una serie di incertezze relative sia alle strutture alternative (REMS) che alla modalità di trattamento degli autori di reato, sia in fase di esecuzione della misura di sicurezza, che al termine della stessa.
Per quanto concerne le REMS, collocazione, requisiti strutturali e procedure operative sono ancora incerti. Inoltre, non avendo il legislatore previsto l’abolizione della misura di sicurezza di tipo detentivo, e dovendo pertanto (forse) vigere all’interno delle REMS l’ordinamento penitenziario, si pone il problema di chi debba ivi applicarlo.
Ci auguriamo che non debbano applicarlo i medici perché questo non farebbe che ricostituire, di fatto, i vecchi manicomi precedenti la Legge 180 (cosiddetta “Basaglia”), trasformando i sanitari in custodi.
I rischi. Si rischia, insomma, pur motivati da una giusta volontà di superare una struttura ritenuta anacronistica, di adottare una metodologia inadeguata a garantire sia un miglioramento delle condizioni di cura dei malati che, d’altra parte, a consentire margini di sicurezza per la società rispetto a soggetti persistentemente gravati da un serio rischio di commettere ulteriori comportamenti/reato.
Stefano Ferracuti
Professore Associato di Psicologia AO Sant’Andrea, Facoltà di Medicina e Psicologia, Università La Sapienza di Roma
Gabriele Mandarelli
Medico Psichiatra e Dottore di ricerca Università La Sapienza