La “questione medica” che è esplosa negli ultimi anni non è dipendente dalla modifica del titolo V, che è contestuale come periodo temporale, ma i cui effetti sono ricaduti principalmente sui cittadini aumentando le diseguaglianze tra le varie Regioni e sui conti del FSN il cui deficit è esploso in maniera esponenziale ed, attraverso sprechi, ruberie, mancati interventi riorganizzativi, contribuendo a mettere in crisi l’universalità e la sostenibilità del sistema
Noi siamo sostenitori della necessità di una modifica del titolo V perché l’esperienza di questo decennio ha dimostrato che occorre che lo Stato, attraverso il Ministero della Salute ed il Parlamento, sia in grado di garantire su tutto il territorio nazionale il diritto alla salute ai cittadini, lasciando, alle Regioni, la gestione con propri modelli organizzativi, all’interno di un definito standard assistenziale ospedaliero e territoriale che sia omogeneo su tutto il territorio nazionale. Occorre quindi che sia il Parlamento a stabilire i LEA, che gli stessi LEA non siano di esclusiva natura economica, ma che tengano conto di indicatori di qualità, appropriatezza e adeguatezza ad iniziare dal fabbisogno minimo di risorse umane, tecnologiche, strutturali e standard organizzativi necessari a garantirli, e che il Governo possa concretamente intervenire con gli indispensabili strumenti correttivi, laddove i governi regionali dimostrino la loro incapacità a modificare i propri modelli gestionali ed organizzativi. Per questo riteniamo fondamentale l’introduzione della “clausola di salvaguardia”.
Ma la modifica del titolo V non risolve la “questione medica”. La crisi dei medici che lavorano nel SSN è infatti determinata da una profonda demotivazione della categoria che nasce per una serie di fattori di cui il principale è la modifica dello status del Medico, imposto dalle riforme degli anni 90 che, omologando il suo status a quello di un “normale” pubblico dipendente, ha visto privilegiare l’aspetto cosiddetto “dirigenziale” rispetto a quello “professionale”. In linea con la spinta ad un’aziendalizzazione che ha concentrato tutti i poteri nel Direttore Generale monocratico, maggiormente interessato a valutare i risultati gestionali rispetto a quelli in termini di “salute”, anche perché questo gli consente un maggior potere nella scelta dei dirigenti e nella valutazione degli stessi, favorendo una pesante interferenza della politica.
E’ questa è la prima riforma necessaria. Bisogna distinguere chiaramente, nella gestione del bene-salute, tra funzioni di indirizzo e controllo politico e funzioni manageriali e tecniche, responsabilizzando cioè i tecnici (in particolare i medici) secondo le rispettive competenze. Ma occorre passare da un modello di azienda manifatturiera ad un modello di azienda di servizi:, le cui logiche devono privilegiare la qualità e l’efficacia del servizio offerto ai cittadini.
A questo si aggiunga che con la “dirigenza” si perde la peculiarità e la specificità delle professioni, creando una confusione di ruoli e competenze, una sovrapposizione di responsabilità gestionali e professionali.
Per questo noi sosteniamo che, vista la specificità dell’attività del medico ed i relativi livelli di responsabilità, il medico dipendente, quale dirigente, deve riacquisire la piena autonomia decisionale nei processi di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione delle malattie fisiche e psichiche della persona, attività che può svolgere direttamente ovvero con la collaborazione di altro personale sanitario, laureato o non, attraverso la definizione dell’ “atto medico”, obiettivo strategico che l’attribuzione della qualifica dirigenziale ha finito per porre in ombra.
Tuttavia, pur mantenendo la qualifica dirigenziale, è possibile introdurre modifiche significative tese anche a differenziarla dalle altre tipologie di dirigenza. La qualifica di dirigente medico deve, necessariamente, essere differenziata rispetto alle altre tipologie della dirigenza pubblica.
La carriera del Dirigente Medico deve quindi tener conto delle effettive peculiarità del professionista che derivano, non solo, da un percorso formativo di elevata specialità ma, soprattutto, da un'attività che richiede elevate competenze tecniche con dirette responsabilità di natura gestionale strettamente legate ai processi decisionali di natura clinico-assistenziale.
Ma esiste anche un grave problema di qualità del lavoro. I blocchi del turn – over e la mancata riorganizzazione della rete stanno imponendo turni sempre più gravosi a medici che, in assenza del ricambio generazionale, hanno un età media sempre più elevata.
Gigli ha citato la grave questione della colpa professionale che incide profondamente sull’attività del lavoro medico, facendo perdere la necessaria serenità nell’assumere necessaria decisioni fondamentali per la salute del cittadino.
Se non si modificano queste situazioni anche la modifica del titolo V sarà inefficace a risolvere la questione medica. Dalla 229 in poi i medici sono stati messi al margine dei centri decisionali, la loro professionalità è stata svilita mentre si sono volute gratificare nuove figure gestionali, stanno addirittura rischiando di scomparire come categoria se non venissero esclusi dal “ruolo unico” della dirigenza pubblica.
Occorre fermare questa deriva e restituire al medico il ruolo che gli compete e riportando l’atto medico al centro delle cure.
Riccardo Cassi
Presidente CIMO ASMD