Con
Amedeo Bianco, presidente della Fnomceo eletto al Senato nelle liste del PD lo scorso anno,concludiamo il nostro giro di interviste con “i tre presidenti senatori”. Nei giorni scorsi abbiamo infatti sentito
Andrea Mandelli, presidente della Fofi e
Annalisa Silvestro, presidente dell’Ipasvi. Anche con Bianco abbiamo tracciato un bilancio della sua “nuova” attività: qualche soddisfazione per aver contribuito a difendere il Ssn e per aver portato la propria esperienza “sul campo” nelle aule parlamentari. Ma anche qualche amarezza per alcuni insuccessi, come la questione dei medici fiscali Inps. E per i prossimi mesi l’attenzione è rivolta al ddl Lorenzin, che contiene la riforma degli Ordini, e poi, ovviamente, l’attesissimo Patto per la Salute.
Senatore Bianco, come è andato questo primo anno da parlamentare? Cosa ha fatto?
Il primo fronte sul quale mi sono impegnato è stata la sostenibilità del Ssn, ovvero il suo finanziamento pubblico, e su questo terreno, al netto di qualche ansia residua, credo che l’obiettivo sia stato raggiunto. È un impegno che ho sostenuto insieme a molti altri parlamentari per garantire che il Ssn non continuasse in quel trend di decrescita che oggettivamente ha comportato grandi difficoltà nell’erogazione delle prestazioni. Tutto ruota intorno alla questione dei due miliardi di ticket e il loro reintegro mi pare sia ormai un dato acquisito. Vedremo poi nella stesura finale del Patto della Salute e nel prossimo Def quali saranno le misure specifiche.
Inoltre ho depositato, sottoscrivendo come primo firmatario, due disegni di legge: uno relativo alla riforma degli ordini professionali, materia ora ricompresa nel disegno di legge Lorenzin, depositato in sede referente presso la Commissione Igiene e Sanità del Senato, e l’altro sulla sicurezza delle cure e la responsabilità professionale, che al momento è l’unico disegno di legge depositato al Senato su questo tema e il cui iter è incardinato anche alla Camera.
Nel resto dell’attività parlamentare, mi sono impegnato sulle questioni relative ai decreti attuativi delle direttive europee, alcune delle quali di grande interesse per la sanità, nonché nell’attività connessa alla legge di stabilità , con emendamenti relativi alle condizioni di lavoro degli professionisti della sanità che purtroppo hanno avuto successo.
Bene. E adesso parliamo di “insuccessi”.
È giusto parlare anche di questi. Per esempio, mi spiace molto non esser riuscito a condurre in porto il provvedimento sul polo fiscale unico e dunque ad intervenire per “salvare” i medici fiscali Inps, circa 1.300 professionistiche ormai da mesi non hanno più un lavoro e una retribuzione. Una situazione grave, sulla quale non intendo assolutamente demordere.
Lei accennava prima al Patto per la Salute che è ormai in dirittura d’arrivo. La ministra Lorenzin intende farne anche l’occasione di una revisione di fatto del Titolo V, dando maggior ruolo ai livelli di governo nazionali. Lei è d’accordo?
Certamente sì. D’altra parte questa è ormai una riflessione su cui concordano tutti gli osservatori più attenti del nostro Ssn. Il nostro è un federalismo atipico e un po’ artificioso, non solo per le dinamiche istituzionali messe in campo (legislazione concorrente!), ma anche in ragione della sua genesi: i federalismi nascono da stati autonomi che si uniscono insieme, mentre il nostro è nato al contrario. Anche per questo, una delle misure che possono aiutare il federalismo ad esprimersi nelle sue migliori vocazioni è proprio quello di avere un centro federale molto forte: nel caso della sanità e della salute questo centro deve essere un ministero autorevole, che, facendo leva sulla garanzia dei Lea, dovrebbe poter intervenire anche su materie che oggi la ripartizione delle competenze attribuisce totalmente alle Regioni.
Su quali materie si sente l’esigenza di un più forte indirizzo nazionale?
Per esempio sui principi ordinamentali che riguardano le stesse organizzazioni sanitarie: la ripartizione delle risorse, le professioni, i sistemi di valutazione degli outcome. Credo che questi temi debbano essere affrontati con decisione, con una forza identitaria, soprattutto nella complessità della moderna medicina, come mostrano anche alcune vicende assolutamente emblematiche, dal caso Stamina, al caso Avastin-Lucentis. Insomma, serve un ruolo molto autorevole, che il ministro mi pare stia ben impersonando, per garantire il diritto alla tutela della salute, l’unico che la Costituzione definisce come fondamentale.
Tra i suoi obiettivi c’è la riforma degli Ordini, che è sul tappeto ormai da anni. Pensa che riuscirà ad arrivare in porto questa volta?
Il disegno di legge Lorenzin è molto complesso. L’auspicio è che si riesca a portarlo in Aula, anche perché si tratta di temi ormai in esame da tempo, che incidono su materie delicate, sensibili.
Quali sono gli elementi caratterizzanti di questa riforma?
Vogliamo ridisegnare Ordini moderni, che siano organi sussidiari dello Stato con tre grandi funzioni. La prima è quella di legittimare l’esercizio della professione, e la questione non è peregrina perché ogni giorno scopriamo che qualcuno “esercita” una professione sanitaria senza averne i titoli. Per questo occorre riconfermare il ruolo istituzionale, classico, degli Ordini, dando certezze a coloro che si domandano se quell’esercizio è legittimo. Secondo aspetto: promuovere la qualità dell’esercizio professionale, dal momento della formazione di base e lungo tutta la vita professionale. Questo è fondamentale in una professione in cui c’è un continuo sviluppo delle conoscenze e delle competenze e, conseguentemente, cambiano i modi per tradurre tutto questo in un diritto equo, accessibile e universale. Terzo tema della riforma: ribadire il significato etico e civile dell’attività medica, con suoi risvolti disciplinari e dunque il grande valore della deontologia.
Queste sono le tre cose che motivano la ragione moderna degli Ordini professionali. Abbiamo alle spalle ormai la cultura di Ordini intesi come corporazioni, rivolti a salvaguardare gli interessi di categoria. Siamo piuttosto davanti ad un mondo dinamico e complesso, dove occorre garantire questi tre presidi: legittimità fondata sulle competenze, qualità e contenuto etico civile di attività professionali che si rivolgono ai bisogni delle persone.
Tutto questo non c’era già negli Ordini?
In parte sì, ovviamente, ma alcune cose necessitano di interventi, anche perché occorre tener presente che il funzionamento degli Ordini è definito da leggi, non da norme interne, e dunque per modificarlo e ammodernarlo occorre una nuova legge. Ad esempio, riguardo alla funzione disciplinare, noi abbiamo prospettato una separazione tra la funzione inquirente e la funzione giudicante, nell’ottica del “giusto processo”, anche per rispondere alle sentenze della Cassazione, che in questi anni indicano come il giudizio disciplinare abbia delle fattispecie che devono essere adeguate al diritto generale. E anche il grande tema della qualità e della formazione ha bisogno di un’ancora legislativa per poter intervenire pienamente: registriamo, infatti, una eccessiva distanza tra il sistema formativo e il sistema del lavoro professionale; questa va corretta perché fa male al Paese. Basti pensare a quello che sta succedendo sulla programmazione, sulle selezioni, sul percorso formativo specialistico, sulle asincronie tra numeri di accesso a Medicina e sbocchi di formazione specialistica e formazione specifica in Medicina Generale. Questa asincronia determina dei vuoti nel percorso che sono riempiti da folle di giovani laureati senza prospettive o, peggio, con la prospettiva certa di dequalificazione professionale e disoccupazione.
A proposito di formazione: quest’anno ci saranno 174 posti in meno per le immatricolazioni alle Facoltà di Medicina. Va bene così o è un problema?
Nell’anno in corso gli accessi sono arrivati ad oltre 12mila e forse sono già troppi, avendo per vari motivi cortocircuitato la programmazione tarata sulla curva dei pensionamenti dei prossimi dieci anni. Dobbiamo definire dei fabbisogni seri, perché davvero non ci possiamo permettere di formare per anni delle persone, facendo spendere loro, le loro famiglie, la collettività, per dirgli poi a 30 anni che non hanno alcuna prospettiva di lavoro. Questo vuol dire dissipare risorse, economiche e umane.
Ora che l’ha frequentata dall’interno, crede che la politica sia consapevole delle difficoltà del mondo della sanità?
La politica vive tantissime difficoltà, comprese alcune esistenziali. Certamente la conoscenza indiretta dei problemi, a volte con forti pressioni mediatiche, spesso non ne consente la piena comprensione. Per questo la presenza di persone investite più direttamente di una specifica competenza ha una funzione chiarificatrice, fornisce una lettura più attenta dei problemi. Partiamo da questo: nel nostro Paese il Ssn impiega 500mila professionisti, tra medici, infermieri e tecnici, che danno un grande servizio alla comunità; le condizioni in cui operano non sono facili, eppure reggono.
E certamente il blocco dei contratti non aiuta…
Il blocco dei contratti nazionali, e anche delle contrattazioni aziendali ad invarianza di risorse, non aiuta. C’è una sorta di congelamento che stride moltissimo con una realtà stressata dal bisogno di cambiamenti organizzativi e gestionali. Da una parte si mummifica l’esistente e dall’altra parte il sistema è investito continuamente, e in modo non sempre coerente, da richieste di cambiamento, con interventi della più varia origine. È una contraddizione che rischia di rompere il sistema, se non si danno risposte politiche chiare e coerenti.
Eva Antoniotti