Il nostro Ivan Cavicchi ne parla da tempo. Ma forse l’affondo decisivo per affermare definitivamente la sua tesi sul “riformista che non c’è” l’ha inciso proprio su queste colonne a fine agosto dell’anno scorso commentando il decreto Balduzzi.
Scriveva Cavicchi: “
Nella tempesta la responsabilità della politica è aver messo al timone della nave il “riformista che non c'è”, cioè un affettato signore dai modi gentili e cordiali ma che non ha mai visto il mare e meno che mai sa cosa si deve fare in una tempesta. Questa logica, che è di potere, la sanità la pagherà cara. Il ‘riformista che non c'è’ non è solo un ministro, un presidente regionale, un assessore, ma un intero sistema, una intera classe dirigente dentro un gigantesco senso comune non consapevole dei tanti “danni collaterali” che sta causando per riparare i quali, ci vorranno non so quante generazioni”.
Da allora molte cose “non sono cambiate”. Anzi, per Cavicchi, la sindrome caratterizzata dall’incapacità o non volontà riformatrice nella sanità ha assunto ormai caratteri patologici. Tant’è che ci ha appena scritto un libro, “Il riformista che non c’è”, per l’appunto, con i titoli della Dedalo, da pochi giorni in libreria.
Recensire in modo tradizionale un libro di Cavicchi non è facile. La sua, lo è sempre ma in particolar modo negli scritti “lunghi”, è una prosa volutamente “a-tecnica” che richiede al lettore un’immersione piena in un lessico spesso inedito, con la deliberata mission, affidata spesso a termini inusuali nel dibattito sanitario, di aprire una pagina inedita nelle logiche dialettiche imperanti tra gli stake holder della sanità.
Per Cavicchi le compatibilità o le più recente sostenibilità, diventano “compossibilità”, come idea strategica per risolvere la crescente divaricazione tra bisogni e risorse. Il paziente, questa fu una delle più brillanti intuizioni di Cavicchi, diventa “esigente”, riuscendo, con efficacia insuperata, a dare un termine definitivo all’evoluzione del rapporto tra malato e apparato, rispetto a secoli di sudditanza passiva del primo verso il secondo.
L’elenco potrebbe continuare con molti altri esempi. Ma penso bastino questi due per far comprendere il perché, come dicevo poco fa, sia difficile limitarsi a una recensione letteraria delle sue opere.
Per questo, come mi è già capitato di fare in occasione di altre su uscite in libreria, ho preferito far raccontare a lui stesso il suo libro. Ecco cosa mi ha detto sulla sua “terza via”, ma anche sul lavoro, sull’atto medico, sulla governance, sul titolo V
Ivan, chiedersi il perché delle cose resta forse l’attitudine più umana anche in questo terzo millennio. E quindi ti chiedo, perché questo libro?
Per me scriverlo è stato un dovere morale. Dire pubblicamente del pericolo che stiamo correndo per la sanità del nostro Paese. Il gioco è cambiato. Non si tratta più di risparmiare su un sistema pubblico che non è in discussione. Oggi la novità è che il sistema pubblico è in discussione a partire dai suoi fondamenti. Oggi è come se fossimo più vicini di ieri alla sua fine. Siamo al definanziamento a scalare che attacca due valori portanti: il diritto di essere curati e il lavoro per curare. Tutele e servizi. Le politiche di ieri che parlano di razionalizzazione non bastano più.
In questo quadro anche l’ultima nota di aggiornamento al Def 2013 lancia segnali di riforma nella sanità. A partire dal concetto di selettività nelle prestazioni…
Nel caso di quella nota di aggiornamento, che tra l’altro è stata sostanzialmente e per fortuna bocciata dal Parlamento proprio nella parte in cui ventilava un ripensamento in chiave privatistico-mutualistico del sistema sanitario, leggo semmai la volontà di una controriforma. Io non voglio una controriforma, perché pensare di tornare a schemi e logiche para mutualistico-privati è senza senso. Ma non voglio neanche l’immobilismo dei conservatori a oltranza che sembrano ormai più delle vestali votate a vita alla difesa di una deità perfetta e ideale simboleggiata dalle leggi 833 e seguenti. Così non è. Tutto evolve e anche le leggi devono evolversi. Per questo la mia è una vera e propria terza via riformatrice che tenta di spezzare l’immobilismo e respingere il controriformismo con un’idea di riforma che parta non dagli argoritmi giuridico-istituzionali ma dal concetto stesso di tutela della salute. Il senso del libro è proprio questo: alla controriforma si risponde con la riforma.
Secondo te va riscritto anche l’art. 32 della Costituzione?
Il punto non è questo. L’art. 32 resta ovviamente un riferimento ma sappiamo bene che la sua interpretazione alla lettera potrebbe addirittura essere penalizzante. Non dimentichiamo che si parla di “cure gratuite agli indigenti”. In nome dell’art. 32 si può essere parimenti conservatori e controriformisti. E infatti penso che quei concetti espressi dai nostri Padri costituenti, senza toccarli, figuriamoci, ma nel loro senso applicato all’Italia di oggi, andrebbero svecchiati. Ripuliti dalle vecchie visioni giusnaturalistiche. La salute non è solo un bene naturale da difendere la famosa “integrità psico fisica” ma è un bene complesso condizionato che si costruisce. Non si tratta solo di fare prevenzione (ammesso di poterla fare) ma di coordinare tutte quelle metodologie, che non cito per brevità, che costruiscono salute. I piani nazionali per la prevenzione lasciano il tempo che trovano,la salute si costruisce con la programmazione socio-economica a livello regionale, restituendo ai comuni la piena titolarità della funzione e facendo della comunità sociale il primo soggetto di salute, agendo il valore sottovalutato della sussidiarietà. Su questa base si tratta di ripensare la concezione base dei dipartimenti per la prevenzione rilanciandoli come priorità. Oggi la salute non è più semplicemente un “interesse collettivo”, come dice l'art. 32, ma è diventata un “interesse generale”. La sostenibilità economica del sistema sanitario è funzione della salute che si costruisce.
Sei tu il riformista che non c’è?
A parte le battute. Posso dire che almeno ci provo! Oggi una riforma della sanità serve necessariamente. Prima di tutto per risolvere il conflitto tra diritti e risorse sgonfiando la struttura della spesa. Non risparmiando marginalmente su un sistema che non cambia mai i suoi modelli portanti ma riformando i modelli che in quel sistema producono spesa. Se il sistema non cambia i modelli, la spesa sarà coerente con quei modelli e in quanto tale non sarà riducibile più di tanto...per ridurla si dovrà solo tagliarla.
Vorresti una vera e propria riforma quater?
No. Non serve una riforma ordinamentale alla vecchia maniera, cioè “la riforma della riforma della riforma”. Piuttosto dobbiamo tirare una linea, voltare pagina e riprogettare il sistema sanitario di sana pianta .Qualcosa tra il rebuilding e Il
reengineering. L'idea generale è riformare la forma di tutela, vale a dire il consumo e l'uso della medicina . Nonostante tanti miglioramenti, la forma di tutela che abbiamo è per certi versi ancora fondamentalmente mutualistica. Nonostante tutto il nostro sistema sanitario è una specie di super mutua.Riformare la tutela vuol dire intervenire sulla domanda espressa, quindi sulla struttura dell'offerta, e di conseguenza sulle modalità produttive, i sistemi organizzati, il genere di governance. Ricordo a tutti che avremmo dovuto riformare la forma mutualistica della tutela già a partire dalla riforma del ‘78. Ma allora si preferì imboccare la strada della gestione. I risultati sono sotto i nostri occhi.
Gestione, efficienza, budget. In tutto questo sembra essersi smarrito il lavoro. E sappiamo che in sanità l’opera prima di uomini e donne resta ancora insostituibile e primaria.
E’ vero. Il lavoro è stato completamente dimenticato come fattore di cambiamento e oggi è diventato il vero nemico da abbattere della controriforma. Lo si vede dai tagli lineari, dal blocco della contrattazione e del turn over, dall'espulsione dei sindacati dalla concertazione, dall'espropriazione dei più elementari diritti dei lavoratori.
Oggi ciò che non regge più sono le definizioni burocratiche di lavoro e di professioni,la confusione e l'ambiguità degli statuti giuridici le forme contrattuali appiattenti, i modi retributivi che pagano il lavoro formale ma non quello effettivo, le organizzazioni del lavoro parcellizzate, il controllo burocratico dell'operatore. Cioè oggi non regge più che il lavoro sia una variabile indipendente dai suoi risultati.
Nel tuo libro proponi di passare dall’atto all’agente. Ricentralizzando il focus sul professionista.
Sì, perché deburocratizzare il lavoro significa ridefinirlo ma non partendo dai compiti, dalle mansioni, dai profili, dagli atti, che per l'appunto sono definizioni burocratiche, ma dall'
agente, cioè da colui che lavora e che è definito attraverso i contesti culturali, sociali, economici, scientifici, deontologici nei quali dovrà operare e che garantirà che tutto quello che lo ha definito, sarà in ogni atto che compirà. Nuove definizioni di professione sono possibili integrando in un reticolo i principali predicati del lavoro professionale. Una professione reale non è mai indipendente da contesti reali in cui opera e meno che mai dalle capacità cognitive dell'operatore. Una professione non è fatta solo da competenze. Essa dipende soprattutto da chi la esercita…l'agente per l'appunto e dove si esercita il contesto di lavoro.
E gli stipendi? I medici, e soprattutto gli infermieri, hanno sempre lamentato stipendi bassi rispetto all’Europa.
Un agente dovrebbe essere pagato con una retribuzione e con una attribuzione, quindi con un doppio salario. Il primo è mensile in forma fissa il secondo è periodico in forma variabile. Il salario variabile sostanzialente è un salario di esito e può aumentare senza limiti a condizione però di finanziarsi con i risultati. I risultati dovranno essere al contempo clinici ed economici. Sul quantum, che dire. In questo Paese la professionalità viene pagata sempre meno…
Anche il contratto, a questo punto, andrà riformato.
Oggi i contratti sono come dei condomini di professioni stivati in tante stanze su livelli a volte confusi con degli effetti di appiattimento e di indistinzione molto preoccupanti. L'idea del silos cioè contratto unico di comparto, ha fatto oggettivamente il suo tempo,ciò che serve è conciliare il comune contesto di lavoro con le specificità delle professioni. Una idea potrebbe essere quella di un contratto come un frame work, cioè quale cornice contrattuale comune, ma in grado di accogliere le diverse professioni in modo specifico.
In questo senso i medici hanno sempre rivendicato un loro ruolo specifico.
Non c’è dubbio che tale deve restare. Ma penso che oggi non ha più senso avere tante forme contrattuali nella grande area medica che non è solo quella a rapporto di lavoro dipendente con il Ssn. Non si tratta di assimilare i vari tipi di rapporti convenzionali alla pubblica dipendenza e né di fare il contrario, ma di ridefinire un altro genere di medico cambiando la transazione contrattuale: in cambio di autonomia garantire responsabilità accettando di essere verificato e misurato con gli esiti. Se lo scambio è autonomia/responsabilità/esiti non ha importanza se il lavoro del medico, avviene nel territorio, in ospedale, o a livello di medicina di base o di specialistica. Ovunque operi il medico sarà pagato con gli stessi criteri naturalmente rimodulando il tipo di esiti da verificare nei diversi contesti organizzativi
E l’organizzazione dei servi sanitari. Dall’ospedale al territorio come dovrà cambiare?
Insistere a riorganizzare un vecchio sistema diviso per unità e strutture difficilmente integrabili è tempo perso. Correggendo un po’ la metafora hub spoke ricollocarei l'hub nel luogo di vita del cittadino riorganizzando tutto il sistema sanitario per percorsi, dipartimenti, reti. Cioè un solo sistema integrato con il distretto che funziona come una cabina di regia per regolare l'uso della rete attraverso i vari percorsi terapeutici. Dobbiamo parlare di “unità delle tutele” se davvero vogliamo integrare.
Il termine magico di questi ultimi anni sembra essere diventato la “governance”. Un termine ormai usato a diversi livelli. Da quello delle gestione nella singola Asl fino a quello che regola i rapporti e le competenze tra Stato e Regioni. In questo campo tutto bene?
No. Sono per una governance multilevel diffusa per cui penso che sia necessario riformare il titolo V della Costituzione rivedere i rapporti e i poteri tra stato centrale, regioni, aziende, operatori e cittadini. Con l'agente e l'autore non ha più senso la forma monocratica di azienda. Infine le regioni ci hanno insegnato che non si governa nulla senza una strategia e la governance va dedotta anche dalla strategia. I tagli lineari delle ultime manovre preludono alla centralizzazione dei poteri, la mia idea di riforma prelude ad un federalismo autentico e cioè ad una diversa redistribuzione dei poteri tra istituzioni operatori e cittadini.
C.F.
Il libro:
Ivan Cavicchi
Il riformista che non c'è, le politiche sanitarie tra invarianza e cambiamento
Edizioni Dedalo,Bari 2013,euro 16