Professor Rusticali, cosa pensa di questo Piano sui punti nascita presentato dal ministro Fazio?
Il piano è benvenuto, ma ora si dovrà cercare di tradurlo in fatti operativi. Su temi come questo, su cui c’è un forte coinvolgimento emotivo dei cittadini, c’è sempre il rischio di fare interventi di facciata. Anche le appendicectomie spesso sono inappropriate, ma su questo non ci sono mai stati titoli sui giornali e non si è mai pensato di compiere interventi specifici.
Al di là di queste considerazioni, è certo che una presa di posizione istituzionale non è fatto secondario, anche se interventi di questo tipo erano già stati varati ripetutamente. Ma tutto è rimasto come prima, anzi, tutto continua a svilupparsi ma nella direzione sbagliata. Ora quindi bisogna passare ai fatti, che non sono conseguenza scontata di un atto normativo. E innanzi tutto bisogna vedere cosa deciderà la conferenza Stato Regioni.
Cosa si potrebbe fare?
Sull’impianto di questo “decalogo” credo non ci sia nulla da eccepire. Ma poi serve formazione, responsabilizzazione dei dirigenti, tutoraggio non solo per gli aspetti clinici ma anche per quelli medico legali, un’informazione più chiara alle donne, una gestione del percorso nascita che orienti e gestisca i singoli casi verso le strutture più idonee.
Almeno in linea teorica, quindi, il Piano le sembra ben fatto, visto che molti degli aspetti che lei cita sono affrontati nel testo.
C’è una sola cosa che credo si possa prestare ad interpretazioni pericolose ed è la previsione di deroghe alla chiusura dei punti nascita con meno di 500 casi all’anno. Capisco le motivazioni pratiche, ma una struttura che non fa almeno 500 parti all’anno non è idonea, non perché manchi di strumentazione o di anestesisti o di altro, ma perché la casistica che si trova a gestire non è sufficiente a fare il salto di qualità nella gestione delle diverse situazioni che si possono prospettare. E allora? Chi sta in montagna deve partorire in una struttura “scadente”? Considerando anche che la postilla “tranne i casi”, oltre a prestarsi a interpretazioni campanilistiche per ragioni politiche, può essere la copertura attraverso la qiuale resta tutto com'è.
L’introduzione di formule disincentivanti anche sotto il profilo economico potrebbe dare risultati positivi?
Credo che sia utile soprattutto per le strutture convenzionate, dove c’è un maggiore interesse diretto a far circolare questa informazione e orientare l’agire dei medici dipendenti della struttura. Ma il medico di guardia di una struttura pubblica neanche lo sa quanto vale quel DRG.
Sostenere il parto senza dolore può essere efficace?
Può essere certamente un incentivo, perché molte donne hanno paura del dolore e per questo chiedono il cesareo. Oltretutto l’impiego dell’analgesia crea anche più presenza, più assistenza intorno alla donna in travaglio e dunque tranquillizza lei e la sua famiglia. Ma bisogna, anche in questo caso, fare attenzione che non si tratti solo di una possibilità teorica: molte strutture non hanno anestesisti dedicati in sala parto e dunque, come è ovvio, se gli anestesisti sono impegnati in altri interventi non possono dedicarsi a fare un’epidurale per il parto, che è comunque una possibilità opzionale e non necessaria.
Perché è importante ridurre il numero di parti cesarei?
L’importante non è ridurre il numero dei cesarei, ma il numero di quelli inappropriati. Gli interventi per ridurre l’impiego del cesareo ai soli casi necessari non partono da un pregiudizio o da una presa di posizione a priori. Il problema è che il cesareo è più rischioso. Se non fosse così, non ci sarebbe ragione di impedirlo o di volerne ridurre l’uso.
E allora perché in Italia è tanto cresciuto il ricorso al cesareo?
È un “andazzo”, di cui è difficile individuare la ragione prima: si fa perché lo fanno tutti. L’unica ragione certa è che questo è stato possibile perché nessuno ha mai fatto controlli e valutazioni.
Proprio per capire meglio le motivazioni non cliniche che spingono i ginecologi a ricorrere al cesareo abbiamo avviato un’indagine, attraverso un questionario distribuito in diverse strutture in Italia. I fattori d’indagine sono: la formazione; il contesto, sia sotto il profilo strutturale e organizzativo sia sotto il profilo culturale; i fattori non clinici di pressione, auto percezione di competenza, pressioni familiari, “minacce” legali. Anche perché non si deve dimenticare che intorno al parto c’è un coinvolgimento speciale, della coppia, della famiglia, un investimento di attese particolari.
Stiamo elaborando le risposte, che sembrano significative e che sfatano alcune “leggende” che si ripetono intorno al cesareo, come quella del weekend.
E.A.