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QS Edizioni - venerdì 22 novembre 2024

Governo e Parlamento

Malasanità. La relazione finale della Commissione di Inchiesta della Camera. Nel mirino 570 casi e 400 morti "sospette"

immagine 22 gennaio - Questo il numero di casi giunti all'esame della Commissione dal 2009 al 2012. Come emerge dalla Relazione presentata oggi a Roma, che descrive un’Italia sanitaria ancora divisa, tra incongruenze nel rapporto tra posti letto e medici, debiti verso i fornitori e spesa sanitaria troppo elevata. Ma i sanitari coinvolti sono quasi sempre assolti. LA RELAZIONE.
Occhi puntati su 570 casi di presunta malasanità arrivati, tra aprile 2009 e dicembre 2012, all'esame della Commissione parlamentare di inchiesta sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi sanitari regionali della Camera. E che, in 400 casi, avrebbe portato alla morte del paziente (vedi i dati Regione per Regione). Ma il condizionale è d'obbligo. Perché, è bene ricordarlo, si tratta di presunti casi di errore sanitario, che devono ancora essere accertati. E come è ben noto, gli accertamenti dimostrano, nella maggior parte delle volte, che non c'è stata colpa da parte dei professionisti della sanità. Le denunce per episodi di malasanità, infatti, spesso derivano da disservizi, carenze, strutture inadeguate, inefficiente servizio di eliambulanza, lunghe attese al pronto soccorso, difficoltà di trasferimenti del paziente da un ospedale ad un altro, casi di infezioni ospedaliere. Come emerge dalla Relazione di fine Legislatura sull’attività della Commissione presentata oggi a Roma.

Indubbiamente, però, negli ultimi anni sono aumentati in maniera significativa i procedimenti penali per casi di, presunta malasanità. Ma proprio il “bassissimo” numero di condanne  – nonché il “cospicuo” numero di archiviazioni  - ha spinto la Commissione ad approfondire i dati delle Procure (aggiornati a dicembre 2011). Quel che ne è emerso è che i procedimenti per lesioni colpose a carico di personale sanitario sono 901 e rappresentano circa l’1,68% sul totale dei 53.741 procedimenti per lesioni colpose nelle circa 80 Procure della Repubblica valutate. In particolare 85 si riferiscono ad episodi registrati durante la gravidanza. I procedimenti per omicidio colposo a carico di personale sanitario sono 736. Rappresentano l’11,8% del numero complessivo di 6.586 procedimenti per omicidio colposo nelle circa 90 Procure della Repubblica valutate.

Dall'analisi della commissione si rileva inoltre una notevole differenza tra la percentuale dei casi riferibili a ipotesi di colpa professionale: l’1,68% per le lesioni e ben l’11,18% per l’omicidio. “Differenza che – spiega la commissione -  potrebbe esser dovuta al fatto che, nel secondo caso, la lesione è più facilmente rilevabile perché il passaggio da uno stato di integrità fisica alla ‘malattia’ è netto e, allo stesso tempo, è più semplice ricostruire il nesso causale con una condotta colposa”.

Anche se sono pochi in termini assoluti i procedimenti per lesioni colpose (85) e i procedimenti per omicidio colposo (75), riferibili alla gravidanza e al parto, essi risultano tuttavia più rilevanti in termini percentuali (circa il 10%). E l’analisi evidenzia che le Procure in cui la media nazionale viene superata sono tutte al Sud, con prevalenza delle regioni Campania e Calabria, "anche se - sottolinea la commissione - a bilanciare questo dato concorre la circostanza che alcune eccellenze (Procure in cui la percentuale di sinistri è inferiore alla media nazionale) sono anch’esse nelle regioni meridionali (es. Bari, Caltanissetta, l’Aquila, Lecce)".

Ma i problemi della sanità italiana non si esauriscono nei casi di presunto errore e danno al paziente. Incongruenze evidenti, come quella relativa al rapporto tra posti letto e personale medico, in cui spesso la prima cifra supera, paradossalmente, la seconda. Spesa sanitaria ancora troppo elevata con particolare incidenza del costo del personale che nel 2011 si attesta al 32,2%. Debiti verso i fornitori che producono interessi moratori che incidono negativamente sui risultati d'esercizio. Sono questi gli altri errori sanitari che mostrano un’Italia divisa, in cui regioni in cui si spende di più per la sanità sono anche quelle in cui la stessa è di peggior qualità. E sono le maggiori criticità riscontrate dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sugli errori e i disavanzi sanitari.
 
Oltre ad un’indagine sulla domanda di salute degli italiani, con particolare riferimento alla necessità di investire maggiori risorse nelle cure delle malattie croniche e in una migliore e più diffusa prevenzione di patologie tumorali, la relazione mette a fuoco le problematiche di alcuni regioni in particolare. Per quanto riguarda la sanità campana, risultano gravissimi alcuni elementi emersi: incarichi irregolarmente ricoperti e conferiti senza pubblico concorso presso molte aziende sanitarie locali e acquisizione di beni senza il rispetto delle procedure di evidenza pubblica presso l’ospedale di Sorrento, come segnalato dalla Commissione alla magistratura inquirente.
 
In Sicilia l’inchiesta condotta ha evidenziato il permanere di gravi criticità finanziarie e della situazione fortemente debitoria della maggior parte delle aziende sanitarie, in particolare quella di Messina, unite all’effetto annuncio di misure e interventi non realizzati, come la ristrutturazione della rete ospedaliera, i Pta (o medicina territoriale) e la mancata costruzione dell’Utin dell’ospedale Bambino Gesù di Taormina, ancora sprovvisto di un reparto di terapia intensiva neonatale a danno dei piccoli pazienti del reparto di cardiochirurgia.
Ad essere interessati da fenomeni di malagestione, anche regioni dall’assistenza sanitaria mediamente di buon livello, come la Toscana, dove il disavanzo della ASL n. 1 di Massa, pari a 1.500.000 euro ha fatto emergere logiche politiche e interessi di carriera vertenti sulle Aziende sanitarie, divenute in alcuni casi centrali di creazione di consenso.
 
Tra le altre regioni oggetto di indagine il Lazio, la Puglia, il Piemonte, Liguria. "Una preoccupazione diffusa rispetto allo stato di salute del nostro Sistema sanitario nazionale spinge il cittadino a rivolgersi al privato o si traduce in una mobilità sanitaria elevatissima, ulteriore aggravio di spesa per le regioni più povere, in particolare nel caso ad esempio della procreazione medicalmente assistita". E' quanto dichiara il Presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta, l'on. Antonio Palagiano. "Crescono le denunce per malpractice e, di conseguenza , - aggiunge - cresce la medicina difensiva da parte dei medici che cercano così di autotutelarsi, visto che il sistema assicurativo spesso preclude loro la possibilità di stipulare polizze. Un problema evidenziato di recente da ostetrici e ginecologi italiani, che subiscono una mancanza di politiche di tutela nei loro confronti, al punto da esser spinti ad uno sciopero, mai verificatisi in precedenza".

Ecco la sintesi dettagliata della Relazione della Commissione.

Nel decennio 1995-2005 la spesa sanitaria corrente complessiva è quasi raddoppiata, passando da 48.136 a 92.804 milioni di euro. Anche se la spesa del 2011, pari a 112.039 milioni di euro, ovvero il 7,1% del PIL, è diminuita di circa 700 milioni di euro rispetto a quella dell'anno prima (pari a 0,6%), essa è tuttavia destinata ad aumentare del 2,2% secondo la previsione di spesa per il 2012.  A pesare su tale spesa non solo e non tanto l'organizzazione dei posti letto, sui quali negli ultimi mesi tanto si sta intervenendo, soprattutto nelle regioni sottoposte a commissariamento. Alcuni capitoli di spesa come la medicina difensiva e l'organizzazione del sistema assicurativo delle aziende sanitarie, pesa in modo rilevante sul nostro Sistema sanitario nazionale.

Diretta conseguenza, della paura del contenzioso medico-legale, il timore di ricevere una richiesta di risarcimento o una pubblicità negativa da parte dei mass media è l’abuso di medicina difensiva. Le numerose accuse dei pazienti che si ritengono danneggiati inducono diversi medici ad attuare una “strategia” utile a scongiurare la possibilità di mettere a rischio la propria professione. Al fine di sollevarsi dalla rivendicazione di una possibile responsabilità, l'operatore tenderà a seguire pedissequamente protocolli e linee-guida, prescrivendo esami diagnostici o ricoveri quando siano astrattamente previsti per quel dubbio diagnostico o per quella patologia, e non quanto siano realmente necessari. Il rilevante costo della medicina difensiva a carico del SSN, stimato in oltre 10 miliardi di euro, sembra quindi destinato ad aumentare, mentre sicuramente negativo sarà l'impatto della disposizione sull'appropriatezza delle cure.

Alto, inoltre, il livello delle spese per il personale, specie nelle regioni sottoposte a piano di rientro. A tal proposito, rilevante è la differenza nel numero di dipendenti medici ogni 10 posti letto effettivi secondo l’area geografica: tale numero, come dimostra l'indagine condotta dalla Commissione, aumenta in maniera spropositata andando da nord a sud, in maniera tale che la Sicilia evidenzia un numero di medici ogni 10 posti letto, che è il doppio di quelli utilizzati nel Friuli Venezia Giulia o nelle Marche. “E’ chiaro che se per far funzionare lo stesso numero di posti letto ci sono realtà regionali che utilizzano risorse umane doppie, ciò non potrà che far lievitare in maniera esorbitante la spesa sanitaria senza aggiungere niente ad appropriatezza ed efficacia delle cure”, dichiara in merito il Presidente Palagiano.

“Emerge evidente anche da questo dato – prosegue - lo scarto regionale tra nord e sud, che parla di un Paese diviso da una sanità ancora disomogenea. Un'Italia federale non può essere un Paese che vede garantito il diritto alla tutela della salute in modo diverso da Regione a Regione. Di fronte alle sfide che il federalismo ci prospetta, il primo, imprescindibile, punto da cui partire è la necessità di garantire ad ogni cittadino italiano pari accesso alle cure”.

Un paese dunque, l'Italia, che non riesce a garantire a tutti i cittadini pari accesso alle cure e che in prospettiva sembra sempre più in difficoltà nell'adempimento di tale compito. A destare preoccupazione sono, ad esempio, gli scarsi investimenti in cura delle malattie croniche. Secondo i dati ISTAT più recenti (2011) ben il 28,9% della popolazione – oltre 17 milioni di persone, quasi un italiano su tre – è affetto da una malattia cronica (diabete, ipertensione, osteoporosi, artrosi-artrite, malattie del cuore, malattie allergiche, disturbi nervosi). Ma, se lo sviluppo della medicina ha allungato la vita dei malati cronici, ciò tuttavia non si traduce necessariamente in un miglioramento del loro stato di salute. Secondo l'Istat (dati 2011) in Italia la speranza di vita è pari a 79,4 anni per i maschi e a 84,5 anni per le femmine e nel 2065 arriverà a 87,7 anni per gli uomini e 91,5 per le donne. A fronte di questa realtà, è preoccupante che, sebbene il Piano Sanitario Nazionale 2011-2013 registri i relativi cambiamenti della domanda di salute, la situazione attuale sembra assai lontana, anche in prospettiva, dal garantire risposte adeguate: attualmente, infatti, le risorse destinate all'assistenza a lungo termine sono inferiori all'1% del PIL, e nel 2030 non supereranno comunque l'1%.

PUNTI NASCITA
Un numero di punti nascita eccessivo rispetto alla popolazione interessata, con quantità di parti effettuati molto marginale e, spesso, non dotati dei necessari standard di professionalità e dell’adeguato supporto tecnologico, e una forte disomogeneità tra i diversi territori in riferimento ad alcuni parametri indicativi, come la percentuale di cesarei. Sono gli aspetti principali emersi dall'indagine sui punti nascita italiani, prima indagine condotta dal Parlamento in merito a “come si nasce in Italia”.

“La prima indagine parlamentare che si propone di restituire un'immagine articolata delle caratteristiche e delle criticità relative al momento della nascita – commenta il Presidente Palagiano - mostra quali sono i punti deboli di un sistema che rischia di trasformare un momento delicato, in tragedia, come abbiamo avuto modo di rilevare nel corso della nostra attività istituzionale di Commissione d'inchiesta incaricata di studiare i casi di presunta malasanità. In Italia, infatti, soprattutto nel Mezzogiorno, si registra un numero molto elevato di punti nascita rispetto alla popolazione interessata. Di conseguenza in molte strutture vengono effettuati pochissimi parti e il personale non dispone, spesso, dei necessari standard di professionalità e dell’adeguato supporto tecnologico. Dall'analisi del campione emerge una grande differenza tra le strutture: si va dai 28 parti al mese di quelle piccole ai quasi 290 di quelle più grandi, con una media di circa 90 parti al mese”.

Altrettanto indicativa la percentuale di taglio cesareo, che l'Organizzazione mondiale della sanità stabilisce doversi attestare intorno al 15%: varia da una media del 44% nei punti nascita più piccoli al 32.8% nei punti nascita di dimensioni maggiori. Risulta, inoltre, essere molto più elevata nelle strutture private. Il dato complessivo del totale parti cesarei sul totale è del 35,4%, concentrato in particolare in alcune Regioni, come la Campania.
“L’eccessivo ricorso al taglio cesareo – spiega Palagiano – costituisce un fenomeno che delinea una specificità del nostro Paese, dove si assiste a un continuo aumento del numero, con valori superiori a quelli rilevati in altri paesi sviluppati e raccomandati dall'OMS. Tale tendenza costituisce una distorsione del sistema, che incide sulle spese regionali senza offrire, di contro, alcuna garanzia. Troppo spesso vi si ricorre senza reali motivi di utilità, magari per cattiva organizzazione ospedaliera o per motivi economici. Può rappresentare, infatti, una soluzione più remunerativa, considerando che, con le attuali tariffe, la Regione rimborsa alle strutture sanitarie una cifra quasi doppia per un cesareo rispetto a un parto naturale”.

“Appare evidente, inoltre – prosegue Palagiano – che il fenomeno si registra con maggiore intensità in molte regioni del Sud (Campania, Sicilia, Puglia) mentre le più virtuose si trovano nel Centro-Nord (Valle d'Aosta, Friuli Venezia Giulia, Toscana). Proprio nel Nord si osservano percentuali più elevate nelle strutture private che in quelle pubbliche, come più elevate sono nelle piccole strutture (che hanno meno medici e necessitano di programmare le nascite), rispetto a quelle grandi, in cui si ha la possibilità di affrontare l'evento-parto aspettando i tempi della puerpera”.

Particolare attenzione è stata dedicata, infine, ad altri aspetti che riguardano la sicurezza e che mostrano risultati molto difformi nei livelli assistenziali forniti dalle strutture: la parto analgesia per i parti naturali viene effettuata, in media, solo nel 15.3% dei casi; la terapia intensiva neonatale (o UTIN) è presente nel 27.6% dei punti nascita; la doppia guardia durante le 24 ore, per i medici e le ostetriche/i, ritenuta indispensabile per garantire la sicurezza assistenziale, è disponibile nel 40% delle strutture valutate. Troppo poche infine le strutture, soprattutto medio-piccole, in grado di fornire assistenza in caso di gravidanza patologica (che rappresenta circa il 10% del totale) che richiede alto grado di tecnologia, altissima competenza, perfetto coordinamento di risorse umane e tecnologiche, completo bilanciamento tra territorio e strutture disponibili.

PROFILI PENALISTICI DELL'ASSITENZA SANITARIA
Negli ultimi anni sono aumentati in maniera significativa i procedimenti penali per casi di, presunta malasanità, caratterizzati, in generale, da un bassissimo numero di condanne. Da qui l’esigenza di approfondire i dati delle Procure (aggiornati a dicembre 2011), da cui è emerso che i procedimenti per lesioni colpose a carico di personale sanitario sono 901 e rappresentano circa l’1,68% sul totale dei 53.741 procedimenti per lesioni colpose nelle (circa) 80 Procure della Repubblica valutate. In particolare 85 si riferiscono ad episodi registrati durante la gravidanza. I procedimenti per omicidio colposo a carico di personale sanitario sono 736. Rappresentano l’11,8% del numero complessivo di 6.586 procedimenti per omicidio colposo nelle (circa) 90 Procure della Repubblica valutate.

Emerge la notevole differenza tra la percentuale dei casi riferibili a ipotesi di colpa professionale: l’1,68 % per le lesioni e ben l’11,18 % per l’omicidio. Differenza che potrebbe esser dovuta al fatto che, nel secondo caso, la lesione è più facilmente rilevabile perché il passaggio da uno stato di integrità fisica alla “malattia” è netto e, allo stesso tempo, è più semplice ricostruire il nesso causale con una condotta colposa.
Meritano rilievo anche il numero bassissimo di condanne e il cospicuo numero di archiviazioni che corrisponde a circa il 40 % del totale dei procedimenti relativi alle lesioni colpose riferibili all’attività medico-chirurgica definiti mentre si riduce in misura sensibile l’incidenza delle archiviazioni per omicidio colposo che corrisponde ad una quota del 35 %.

Verosimilmente, la maggior parte delle archiviazioni deriva da una consulenza tecnica favorevole all’indagato. Se pure, infatti, è possibile dimostrare che si è verificato un errore, non altrettanto lo è provare che la malpractice sia stata la causa di un decesso. Anche da questo deriva il maggior numero di condanne in sede civile piuttosto che in sede penale.

Risalta la disomogeneità dei dati relativi alle diverse procure in merito alla percentuale di indagini per omicidio colposo nei confronti di medici (che va dall’1.31% di Bari al 36.11% di Reggio Calabria). Altrettanto variabile la percentuale di fascicoli riferibili alla gravidanza o al parto con un range che va da 0.00% a 11.11% di Reggio Calabria.

Anche se sono pochi in termini assoluti i procedimenti per lesioni colpose (85) e i procedimenti per omicidio colposo (75), riferibili alla gravidanza e al parto, essi risultano tuttavia più rilevanti in termini percentuali (circa il 10 %). L’analisi evidenzia, purtroppo, che le procure in cui la media nazionale viene superata sono tutte al Sud, con prevalenza delle regioni Campania e Calabria, anche se a bilanciare questo dato concorre la circostanza che alcune “eccellenze” (procure in cui la percentuale di sinistri è inferiore alla media nazionale) sono anch’esse nelle regioni meridionali (es. Bari, Caltanissetta, l’Aquila, Lecce).

MALPRACTICE ED EVENTI AVVERSI IN SANITÀ
Durante tutto il suo mandato la Commissione parlamentare di inchiesta sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi sanitari regionali si è dedicata allo studio e alla disamina degli eventi avversi che le sono stati sottoposti e che ha rilevato attraverso gli strumenti di informazione. L'acquisizione di una notevole mole di documenti e un rilevante sforzo di analisi sono stati diretti a comprenderne le cause remote, per capire quali politiche sanitarie e di sicurezza possono ridurre le sofferenze non necessarie e le morti evitabili.

Sono complessivamente 570 i casi di presunta malasanità – tra errori del personale e disfunzioni – arrivati all'esame della Commissione da aprile 2009 a dicembre 2012. In 400 casi si è registrata la morte del paziente. Gli episodi di malasanità non sempre però hanno a che fare con l'errore diretto dell’operatore: spesso questi episodi derivano da disservizi, carenze, strutture inadeguate, inefficiente servizio di eliambulanza, lunghe attese al pronto soccorso, difficoltà di trasferimenti del paziente da un ospedale ad un altro, casi di infezioni ospedaliere.

Gran parte dei problemi assistenziali sono dovuti a una scarsa circolazione delle informazioni, da attribuire a procedure inadeguate di trattamento; un'altra rilevante quota deriva da fattori legati all’organizzazione e al management. Ma anche quando l'evento può essere attribuito al singolo operatore, esso tradisce comunque l'assenza di procedure definite a prova di errore, o la mancanza di supervisione e controllo, dimostrando la difficoltà di riconoscere gli errori attivi – comportamenti errati degli operatori o un malfunzionamenti di strumentazioni – dagli errori latenti – insufficienze organizzative del sistema che hanno reso possibile un errore attivo. Ciò significa che solo un approccio generale al miglioramento della qualità delle strutture e delle loro procedure può generare la riduzione degli errori, ed è questa la strada che va perseguita con energia.
La Commissione registra purtroppo ancora una volta un dato preoccupante: gli eventi sono più frequenti nelle Regioni in disavanzo, sottoposte ai piani di rientro. Su 570 casi monitorati, 117 si sono verificati in Sicilia, 107 in Calabria, 63 nel Lazio, 37 in Campania, 36 in Emilia Romagna e Puglia, 34 in Toscana e Lombardia, 29 in Veneto, 24 in Piemonte, 22 in Liguria, 8 in Abruzzo, 7 in Umbria, 4 nelle Marche e Basilicata, 3 in Friuli, 2 in Molise e Sardegna, 1 in Trentino. Ciò evidenzia come le Regioni che spendono di più non necessariamente hanno un'assistenza migliore, mentre la minore qualità dell'assistenza costa in termini di risarcimenti e assicurazioni. Ancora una volta è lecito manifestare il timore che le riduzioni di bilancio e la riorganizzazione dei servizi provochino in queste Regioni una diminuzione dell'offerta di cure, e un possibile ulteriore scadimento della qualità delle medesime, fenomeno che rischia di creare un circolo vizioso, e che deve essere assolutamente evitato, attraverso politiche di riduzione degli sprechi e di aumento dell'efficienza ancora più incisive nelle regioni a rischio.

“È opportuno sottolineare – commenta il Presidente della Commissione Antonio Palagiano – che, il numero di eventi avversi registrati, pari a 570, seppure significativo, è rapportato a milioni di trattamenti terapeutici e di interventi chirurgici intervenuti in questi anni, e testimonia un sistema che, nel complesso, riesce comunque a prendersi cura della salute delle persone, nonostante i rilevanti problemi che abbiamo messo in luce nella relazione finale. È, inoltre, importante sottolineare che la negligenza esiste, ma accade sempre che sotto processo ci finiscano solo medici o infermieri. Perché spesso si guarda solo a chi ha commesso l'errore, senza andare a verificare le condizioni in cui i professionisti si trovano costretti a lavorare. Proprio lì, spesso, risiede la causa dell'errore commesso. Ma, in questi casi, la colpa, a volte, è anche del personale sanitario che non denuncia situazioni a rischio in cui si trova a lavorare”.

L'indagine indica chiaramente la necessità urgente di completare in tutte le Regioni e presso tutte le strutture il SIMES - Sistema per il monitoraggio degli errori in sanità e degli eventi sentinella, che avrebbe dovuto essere perfezionato entro il 2011 ma che è ancora in massima parte incompiuto. Assieme a una corretta gestione dei rischio clinico, questo Sistema può dotare le strutture di strumenti adeguati a ridurre il numero e l'incidenza degli incidenti e degli errori, riducendo quindi le sofferenze non necessarie e le morti evitabili.

Tra gli eventi avversi, meritano attenzione i casi di infezioni da contagio in ambiente ospedaliero. Otto complessivamente quelli arrivati all'attenzione della Commissione. Due casi di trasfusioni infette (Emilia Romagna e Sicilia), due gemelli deceduti  presso l’azienda ospedaliera Pugliese-Ciaccio di Catanzaro, per infezione nosocomiale, una bimba di pochi mesi deceduta all'Annunziata di Cosenza  per contagio da Klebsiella pneumonie. Tre infezioni da stafilococco ai danni di tre persone (donna di 78 anni e due uomini di 51 e di 83) decedute presso la clinica Hesperia di Modena. Un presunto caso di decesso da infezione contratta in ambiente ospedaliero nel policlinico Umberto I per contagio da Acinetobacter. Un decesso di un uomo affetto da rara malattia immunologica ma ricoverato nel reparto di malattie infettive che ha contratto virus da influenza "A" presso il nosocomio di Siracusa.

Rilevante è notare come il maggior numero di segnalazioni di eventi avversi è relativo al parto: una segnalazione su 5 riguarda episodi verificatisi prima durante o dopo questo delicatissimo momento, non sempre gestito nel modo migliore. Inoltre queste situazioni si verificano più spesso nel Meridione: su 104 episodi di malpractices avvenuta al momento della nascita, la metà è concentrata tra Sicilia e Calabria, seguite da Campania e Puglia. Fatta eccezione per alcune regioni del Nord dal particolare territorio (come il Trentino Alto Adige), è proprio nel Mezzogiorno si concentra un più alto numero di punti nascita di piccole dimensioni e con pochissimi parti e si concentrano anche le percentuali maggiori di tagli cesarei. Il dato conferma che o partorire in un ospedale dove nascono meno di 500 bambini all'anno non è sicuro per la madre e per il neonato, né è conveniente per il sistema sanitario. I centri più grandi, quelli dove si registrano più di 500 nascite annue, sono quelli che in genere dispongono di una guardia medica 24 ore su 24, fanno meno ricorso al cesareo e dispongono di migliori e più efficienti dotazioni, in termini di personale e di tecnologie complesse.

Tra i punti nevralgici del Sistema Sanitario Nazionale la rete di emergenza-urgenza. Di quelli presenti nell'archivio della Commissione, ben 34 casi fanno riferimento ad episodi relativi al pronto soccorso e al 118. Persone visitate al pronto soccorso e poi mandate con leggerezza a casa, ma decedute poco dopo, pazienti morti dopo aver atteso per ore di esser visitati, ambulanze prive di defibrillatori. Anche per questa categoria di presunti casi di malasanità, il Sud Italia è penalizzato: 9 segnalazioni sono relative alla Sicilia, 7 alla Calabria, 6 al Lazio.

“Quello però che è fondamentale rilevare – commenta il Presidente Palagiano – è l'assenza, in Italia, di una banca dati che possa conteggiare in modo sistematico i casi, dunque qualsiasi elenco è parziale, fino a quando il sistema SIMES non sarà a regime. I tagli alla sanità, effettuati negli ultimi anni, incidono sull'aumento delle denunce: se si tagliano i posti letto e le ambulanze sono fuori uso perché le barelle vengono utilizzate come letti, ovviamente chi attende l'arrivo del 118 rischia di non vedere i soccorsi arrivare per tempo. Se si continua a tagliare il personale, si costringe chi resta a coprire turni sempre più lunghi e impegnativi e, di conseguenza, con conseguenze negative sul livello di attenzione. Se una Asl non ha budget, impiegherà mesi o anni per aggiustare una tac. E questi sono tutti casi che ci sono stati segnalati”.

COPERTURA ASSICURATIVA DI AZIENDE E OSPEDALI
Strettamente correlata ad un aumento, giustificato o meno da reali situazioni, delle denunce di malpractice, è derivata la crisi della struttura di assicurazione delle organizzazioni sanitarie. Il cospicuo elevarsi dei premi richiesti alle Aziende è coinciso con l’abbandono del mercato da parte degli assicuratori: sempre più compagnie ritirano dal mercato prodotti di garanzia della responsabilità civile professionale medica, mentre altre offrono prodotti dedicati solo a determinate specializzazioni, considerate meno rischiose, mentre altre ancora rifiutano di assumere la garanzia a professionisti già incorsi in sinistri, o si espongono solo per massimali limitati. Da qui la necessità, per la Commissione errori e disavanzi sanitari, di approfondire questo capitolo di notevoli spese per il Servizio sanitario nazionale, come ha dimostrato la recente indagine sui sistemi assicurativi condotta attraverso questionari inviati alle aziende.

Bastano pochi numeri per mettere a fuoco il problema: crescono del 4,6% annuo i premi assicurativi che le aziende pagano alle compagnie, in conseguenza di un altrettanto marcato aumento delle richieste di risarcimento, ma calano del 75% i danni liquidati. Altissimo l’incremento dei premi assicurativi versati: tra il 2006 e il 2011 è stato del 23% e medio annuo del 4,6% e si è passati, passati da 288 milioni di euro complessivamente versati nel 2006 a 354 milioni del 2011. Il premio medio annuo assicurativo, pagato dalle aziende sanitarie a livello nazionale, è aumentato da 2 milioni di euro nel 2006 a 2,7 nel 2011, con un incremento del 35%. Altissimo anche l'incremento delle richieste di risarcimento, che sono aumentate del 24%.

I danni liquidati invece calano. Nello stesso intervallo temporale, gli importi pagati per risarcimento dalle compagnie assicuratrici, infatti, sono passati dai 191 milioni del 2006 ai 91 milioni del 2011, con una riduzione del 75% In particolare nel Nord Ovest, i pagamenti sono scesi da 68 milioni a 11 milioni, arrivando ad un sesto del valore di 5 anni prima. È chiaro che il sistema è strutturato in maniera tale da favorire, e non di poco, i guadagni delle compagnie assicuratrici, a scapito del sistema sanitario che potenzialmente sborsa sempre di più per risarcimenti e numero di azioni legali che si sono ridotte. “I dati parlano di una crescente e, spesso, pretestuosa conflittualità medico-paziente. La differenza tra il boom di denunce di sinistri e la diminuzione degli importi liquidati mostra come la tendenza sia quella di intentare cause, a volte in modo quasi strumentale. La conseguenza è che i premi assicurativi schizzano alle stelle e le aziende sanitarie – costrette ad assicurarsi – subiscono un vero e proprio salasso, che serve a tutelarsi da quello che sembra, a tutti gli effetti, un business. Inoltre, ad esserne fortemente compromesso, è il rapporto medico-paziente”, spiega il Presidente Palagiano.  

Altro aspetto gravissimo è la percentuale elevatissima (62%) di dipendenti senza copertura assicurativa per colpa grave; essa costituisce un'anomalia che andrebbe quanto prima corretta. Nel nostro Paese la giurisdizione in campo medico – che risale, in pratica, al Codice Rocco del 1930 – manca del tutto di adeguata specificità. L’Italia, insieme al Messico, è l’unico Stato a non prevedere il reato di “colpa medica” e, in Europa, è l'unico Paese, insieme alla Polonia, a prevedere la perseguibilità penale degli errori clinici. Ciò significa che l’atto medico, di fatto, è, equiparato ad un atto di delinquenza comune. In realtà, però, dei tantissimi processi penali avviati – come risulta da un’indagine condotta da questa stessa Commissione parlamentare di inchiesta nel 2011 – la quasi totalità si conclude con l’archiviazione: ben il 98,1% dei procedimenti per lesioni colpose e ben il 99,1% dei procedimenti per omicidio colposo.

Una copertura assicurativa globale gestita direttamente dalle regioni e non dalle singole ASL, rappresenta, per chi l'ha attivata, un importante fattore di riduzione di spesa. Tale Fondo Regionale Assicurativo è però presente in sole 4 regioni (20,7%): la Toscana con 16 aziende sanitarie (45,7 %), il Friuli Venezia Giulia con 9 centri (25,7%), la Liguria anch’essa con 9 aziende (25,7%), la Basilicata con un’azienda sanitaria (2,9%). Sono invece 122 le aziende (il 72,2%) che si affidano alle compagnie assicurative. Il settore è sostanzialmente in mano a un numero ristretto di compagnie, dominato dalla AM Trust Europe (con cui, nel 2011-2012, ben il 46% delle aziende sanitarie ha stipulato una polizza). “Diffondere l'utilizzo del Fondo Regionale nella maggior parte se non a tutte le ASL, realizzando in tal modo una corrispondente copertura quasi totale per la colpa grave – spiega il Presidente Antonio Palagiano – determinerebbe una notevole riduzione della spesa pubblica senza toccare il livello quali-quantitativo dell’offerta sanitaria. Comporterebbe, come seconda ma non meno importante conseguenza, una maggiore tranquillità di azione per i medici. Il medico che si sente di poter operare, senza rischiare il default finanziario, ridurrebbe il ricorso alla medicina “difensiva”, un capitolo di spesa in continuo aumento che costa allo Stato. Mettere fine a quel comportamento che costringe il medico a prescrivere esami spesso inutili, se non dannosi, per tutelarsi da una possibile causa giuridica, è un passo fondamentale per ridurre la spesa sanitaria nel nostro Paese”.

MEDICINA DIFENSIVA
Negli ultimi anni si è assistito al notevole acuirsi dell’attenzione agli errori e agli incidenti che possono verificarsi nell’erogazione dei trattamenti sanitari. Tale fenomeno è dovuto in parte al rilievo dato agli eventi dalla letteratura scientifica e dai mass media, ma deriva soprattutto dal manifestarsi, anche in Italia, di un nuovo indirizzo culturale e giurisprudenziale diretto ad incrementare esponenzialmente il risarcimento del danno biologico ed esistenziale. Ciò ha sviluppato la tendenza alla “medicina difensiva”, ossia la tendenza dei medici a modificare il loro comportamento professionale a causa del timore di procedimenti giudiziari per malpractice.

Nel novembre 2010 è stata presentata la prima ricerca nazionale sul fenomeno della medicina difensiva, realizzata dall’Ordine provinciale dei Medici-Chirurghi e degli Odontoiatri di Roma. I dati raccolti indicano che il 78,2% dei medici ritiene di correre un maggiore rischio di procedimenti giudiziari rispetto al passato, il 68,9% pensa di avere tre probabilità su dieci di subirne. Complessivamente, ben il 65,4 % ritiene di subire una pressione indebita nella pratica clinica quotidiana a causa della possibilità di tale evenienza. Gran parte dei medici ricorre dunque alla medicina difensiva a causa del clima attuale presso la pubblica opinione (65,8%), o a causa di eventuali iniziative della magistratura (57,9%), o per le esperienze di contenzioso di altri colleghi (48,4%), o ancora per la necessità di prevenire sanzioni comminate da strutture e servizi di appartenenza (43,1%), per il timore di una compromissione della carriera (27,8%), per paura di vedere la propria immagine professionale negativamente riportata dai media (17,8%).

In particolare, il 53% del campione esaminato dichiara di prescrivere farmaci a titolo “difensivo” e, mediamente, tali prescrizioni sono il 13% circa di tutte quelle uscite dal ricettario. Il dato s’impenna al 73% con riferimento alle visite specialistiche, ove tali prescrizioni ridondanti diventano il 21% del totale effettuato dal singolo medico. Quasi sullo stesso valore il ricorso a esami di laboratorio come sorta di “autotutela”, prescritti dal 71% dei medici, con una media del 21% su quelli complessivi. La percentuale più alta appartiene agli esami strumentali: è il 75,6 % dei medici che vi ricorre per abbondare in sicurezza, e ciò incide con un 22,6% su tutti gli accertamenti di questo tipo. La cifra si ridimensiona sensibilmente con riferimento ai ricoveri: li usa come scudo il 49,9% degli interpellati, e potrebbe essere evitato l’11% del totale.

L'incidenza percentuale dei costi della medicina difensiva sulla spesa sanitaria è del 10,5%, generato da tutti i medici, pubblici e privati (farmaci 1,9%, visite 1,7%, esami di laboratorio 0,7%, esami strumentali 0,8%, ricoveri 4,6%). Sulla spesa privata sale al 14%, prendendo in esame soltanto i medici privati (farmaci 4%, visite 2,1%, esami di laboratorio 0,6%, esami strumentali 0,4%, ricoveri 0,1 %). Tenendo conto dell'incidenza sulle risorse dello Stato, può dirsi che la medicina difensiva pesa sulla spesa sanitaria pubblica per 0,75 punti di PIL, ossia per oltre 10 miliardi di euro, importo pari a poco meno di quanto investito in ricerca e sviluppo nel nostro Paese, e quasi pari alla quota dello Stato per l'anno 2012 dell'Imposta Municipale Unificata.

A prescindere dagli aspetti connessi al dispendio di risorse, la medicina difensiva riduce indubbiamente la qualità dell’assistenza sanitaria. Non solo perché ricerche diagnostiche inutili rappresentano un costo umano evitabile, e perché viene vulnerato il rapporto tra medico e paziente; soprattutto, è il pedissequo attenersi del professionista apprensivo ai protocolli suggeriti e alle linee guida definite che impedisce in molti casi di somministrare con serenità il trattamento adeguato, che sarebbe imposto dall’esercizio dell’arte medica, sacrificando la salute del paziente sull’altare della sicurezza giudiziaria. Problema di cui sembrano consapevoli i medici stessi, visto che il 77,2% ritiene che le norme che disciplinano la responsabilità professionale si ripercuotono negativamente sulla qualità delle cure e, circa l’83% ritiene influenzino negativamente il rapporto con il paziente.

MOBILITA' PASSIVA, IL CASO EMBLEMATICO DELLA PMA
Troviamo zone dotate di un servizio sanitario di alta qualità – quasi tutte al Nord, come l'Emilia Romagna, il Friuli, il Veneto, anche la Lombardia nonostante gli ultimi scandali – e zone, al Sud, in cui il diritto alla tutela della salute non viene minimamente rispettato. Questa enorme disuguaglianza pesa anche economicamente, in quanto favorisce la migrazione sanitaria o mobilità passiva: i viaggi della speranza per andarsi a curare altrove acuiscono il divario, arricchendo maggiormente Regioni già ricche a discapito di quelle povere, che devono anche pagare la cura fuori sede.

Nel 2011 la mobilità passiva delle due regioni è stata pari a 520 milioni di euro: 285 milioni a carico del servizio sanitario campano e 235 sulle 'spalle' di quello siciliano. Tra le tipologie di assistenza che maggiormente incidono sulla migrazione sanitaria, quelle relative alle tecniche di fecondazione medicalmente assistita.

Dall’entrata in vigore della legge 40, continuano ad aumentare in modo costante le coppie che accedono alle tecniche di PMA, così come aumentano il numero di cicli iniziati e delle gravidanze ottenute. Oggi i nati da fecondazione in vitro sono il 2,2% dei nuovi nati.

Dal 1 gennaio 2011 al 30 giugno 2012, le donne che si sono sottoposte al trattamento, nei centri che hanno risposto al questionario somministrato dalla Commissione (96 risposte su un totale di 351 centri dell’elenco del Registro Nazionale Procreazione Medicalmente Assistita e pari al 27% del totale) sono state 50.900: di queste 37.322 erano residenti nella stessa Regione del centro di PMA, mentre 13.578 hanno dovuto migrare verso altre regioni, con conseguenti costi e disagi: il 48% ha scelto il Nord-ovest. La media a livello nazionale di donne trattate per ogni centro è di 444 donne residenti e di 168 donne non residenti. Più di un quarto delle donne, quindi, esegue trattamenti in altre regioni diverse da quelle di residenza con una migrazione che va, tipicamente, da sud verso nord. Il 39% dei cicli riproduttivi fatti sui siciliani, ad esempio, (5130 nel 2010, dato estrapolato dal piano sanitario regionale siciliano) sono effettuati al nord. Il motivo è dovuto al fatto che nella maggior parte delle regioni del nord, tali trattamenti sono previsti all’interno del sistema sanitario regionale mentre in altre regioni sono effettuati in centri privati e, dunque, a carico del paziente. In Sicilia, su 36 centri, 7 sono pubblici e fanno 445 cicli (14%) e 29 sono privati ed effettuano il 86% dei trattamenti. Quindi a pagare è la famiglia se il trattamento viene fatto nella propria Regione d'origine, mentre paga quest'ultima se viene fatto in altre regioni diverse dalla propria. Nel Sud e nelle isole si concentra il maggior numero di centri privati (con 7 centri su 16), mentre il maggior numero dei privati convenzionati si trova in Lombardia, con 9 centri su 10 appartenenti a questa tipologia. Ne consegue che spesso al sud le coppie pagano di tasca loro oppure sono costrette a fare lunghi viaggi della speranza verso i centri del Nord che vengono pagati dalle regioni a scarsa dotazione (Sicilia, Calabria..) alle regioni ad alta dotazione. L’indice di “attrattività” che esprimere la capacità di una struttura di una Regione di richiamare potenziali pazienti da altre regioni, vede in testa: Toscana (113,3%), Valle d’Aosta (61,9%), Friuli Venezia Giulia (48%), Emilia Romagna (34,2%), Lombardia (31,8%).

“Con questo tasso altissimo di mobilità passiva, tra l'altro in continua crescita, le Regioni del Nord continuano ad arricchirsi a spese delle regioni più povere. L’unico modo per superarlo è inserire la riproduzione assistita all’interno dei LEA, per far in modo che venga reso omogeneo su tutto il territorio tanto il servizio che il costo. Allo stesso modo e per lo stesso motivo, sarebbe necessario prevedere un unico costo per il rimborso, valido in tutto il paese come avviene per le altre patologie”, spiega il Presidente Palagiano. “Inoltre – aggiunge – ridurre la mobilità, sarebbe atto umanitario nei confronti delle coppie che si trovano ad affrontare una fase delicata come il progetto di diventare madri e padri, non solo affrontando le difficoltà dovute alle tecniche in se stesse, ma anche lontani da affetti, famiglia e terre d’origine”.
 
22 gennaio 2013
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