La lettura del comma 1 dell'art. 3 del decreto legge nel testo entrato ieri al Consiglio dei Ministri riguardante la responsabilità relativa all’esercizio della professione sanitaria, lascia a dir poco interdetti.
Ma come? A fronte di una problematica di estrema importanza, che da tempo avverte la cogente necessità di un corpo normativo ad hoc chiarificatore ed unificatore, dal cilindro di non si sa quali “esperti” vien fuori una norma palesemente inutile e di un a-tecnicismo sorprendente che, pur volendola interpretare nel senso voluto da coloro che l’hanno ideata, afferma un principio ovvio, da sempre pacifico sia in dottrina che in giurisprudenza: posto che, se al sanitario non si possa muovere alcun rimprovero, non si vede come potrebbe trovare ingresso un’ipotesi di colpa.
Il discorso, in verità, potrebbe anche approfondirsi, nel senso che si potrebbero dare casi nei quali l’esercente la professione sanitaria ha, sì, applicato le linee-guida e le “buone pratiche della comunità scientifica e internazionale” (frase che, si osserva per inciso, vuol dire tutto e quindi niente) ma, tuttavia, sussistevano, nella fattispecie concreta considerata, elementi che avrebbero consigliato un diverso approccio terapeutico: ipotesi nella quale, per l’appunto, una colpa lieve bensì vi sarebbe, ma non sanzionabile, secondo quanto sembrerebbe emergere dalla lettera della norma.
Ma se così fosse la norma sarebbe del tutto inapplicabile e incostituzionale, in quanto introdurrebbe una vera e propria “immunità” ad personam e deresponsabilizzerebbe il professionista sanitario: quest’ultimo, infatti, sarebbe un automa, una sorta di “meccanico applicatore” di queste linee-guida da cui mai converrebbe discostarsi. Ma è chiaro che il significato è ben diverso ed è la mera ricezione dell’orientamento giurisprudenziale più che secolare: il professionista non è in colpa se ha rispettato ciò che la scienza medica e le comuni regole di prudenza, perizia etc impongono. Ma v’è di più. Non vi può esser dubbio che tra le c.d. “buone pratiche” della comunità scientifica vi sia certamente la massima di buon senso per cui è un buon professionista colui il quale sa adattare la sua scienza al caso concreto e non già quello che, indifferente alla specificità della fattispecie, osserva acriticamente una regola astratta.
La norma, poi, richiama le “linee-guida”, peccato però che dimentica i protocolli, ben più di quelle cogenti, e ci si ferma qui....!
Qualcosa di buono, va riconosciuto, c’è, e riguarda il risarcimento del danno biologico “conseguente all’attività dell’esercizio della professione sanitaria”, con il riferimento unificatore alle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del decreto leg. 2009 del 2005, dal momento che –sotto alcuni profili e prescindendo da problematiche costituzionali ancora in atto- il bene-salute non dovrebbe ammettere “distinguo” per via risarcitoria: e allora, perché non estenderne il principio?
Si spera che ciò, almeno, incida sui premi assicurativi, posto che le tabelle legali determinano valori risarcitori decisamente inferiori a quelli di tipo equitativo, in specie delle tabelle di Milano in uso nella prevalenza dei tribunali.
In definitiva, si assiste a un’altra occasione persa, a interventi settoriali del tutto privi di organicità e della volontà-capacità di affrontare funditus una problematica che richiederebbe la partecipazione convinta e autorevole di diverse componenti: in primis politica, poi assicurativa, infine tecnica con la T maiuscola.
Antonio Lepre
Magistrato ordinario presso il Tribunale di Napoli