“Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore”.
Questa l’informazione provvisoria n. 27/2019 resa nota dalle Sezioni Unite della Cassazione della sentenza del 19 dicembre (relatore A.M. Andronio) il cui dispositivo è ancora in fase di pubblicazione.
La sentenza assolve per la prima volta un coltivatore di cannabis se la coltivazione è minima e per uso proprio e depenalizza la coltivazione di marijuana, ma in generale di piante da cui sono ricavabili sostanze stupefacenti, se indirizzata al solo consumo personale.
La decisione delle Sezioni unite riguarda un caso di coltivazione di 2 piante di marijuana (una alta 1 metro con 18 rami, l’altra alta 1,15 metri con 20 rami) e mette fine ai dubbi interni alla stessa Cassazione, soprattutto delle singole sezioni.
Un primo orientamento ha stabilito che per il reato previsto dall’articolo 28 del Testo unico sugli stupefacenti (Dpr n. 309 del 1990) non è sufficiente la semplice coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, ha raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma è necessario verificare se questa attività è in concreto idonea a compromettere la salute pubblica e a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato.
Un secondo orientamento ha indicato invece la capacità offensiva della coltivazione che consiste nella sua capacità a produrre le sostanze per il consumo. Non ha importanza cioè la quantità di principio attivo ricavabile, ma la semplice conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente, con l’obiettivo di scongiurare il rischio di diffusione futura della sostanza drogante.
La Corte d’Appello nel caso in esame alle sezioni unite aveva seguito il secondo orientamento e per la coltivazione delle 2 piante l’imputato era stato condannato a un anno di carcere e una multa di 3.000 euro per l’offensività della condotta per effetto del grado di maturazione delle piantine; mentre era stata trascurata una valutazione dell’idoneità a produrre effetti droganti.