“L’impossibilità di ottenere il cambiamento del proprio nome per oltre 2 anni e mezzo, a causa del fatto che la procedura di mutamento di sesso non era stata completata a seguito del rinvio dell’intervento chirurgico per il cambio di sesso, costituiva un’omissione dallo Stato di adempiere al suo obbligo positivo di assicurare il diritto del ricorrente al rispetto della sua vita privata”. È quanto ha stabilito la
Corte europea dei diritti umani in una sentenza su un caso “italiano” in cui si discuteva della legittimità della decisione dell’autorità amministrativa (Prefetto) di autorizzare un transessuale dall’aspetto femminile a cambiare il suo nome maschile, in quanto nessun provvedimento giudiziario irrevocabile era intervenuto a confermare il mutamento di “sesso”.
Dal punto di vista della Corte di Strasburgo, la natura rigida della procedura giudiziaria richiesta per il riconoscimento dell'identità sessuale ai soggetti transessuali, come allora in vigore, avevano lasciato la persona, il cui aspetto fisico e la cui identità sociale erano stati femminili per lungo tempo, per un periodo irragionevole in una posizione anomala tale da generare un senso di vulnerabilità, umiliazione e ansia. Infine, la Corte EDU ha osservato che la legislazione era stata modificata nel 2011, non essendo più richiesta la pronuncia di una seconda sentenza ed essendo oggi previsto che le annotazioni sul registro dello stato civile possono essere ordinate dal giudice con la stessa sentenza che autorizza l’intervento chirurgico per il cambiamento di sesso.
Il caso. Nel maggio 2001 il tribunale di Roma aveva autorizzato S.V. a sottoporsi a trattamento chirurgico per il cambiamento di sesso. Tuttavia, secondo la legislazione in vigore allora, questi non poteva cambiare il nome fino a quando il giudice non avesse confermato l’avvenuta esecuzione dell’intervento chirurgico ed emesso una sentenza irrevocabile con cui accertava l’avvenuto cambiamento di sesso, cosa avvenuta il 10 ottobre 2003. La Corte di Strasburgo ha ritenuto che la questione in esame rientrasse interamente nell'ambito del diritto al rispetto della vita privata.