Un paziente a cui resta poco tempo da vivere non deve essere sottoposto ad alcun intervento se è evidente che questo non potrà portare alcun beneficio per la salute né un miglioramento della qualità di vita. E questo anche se il paziente è stato informato sui rischi ed è consenziente. Lo stabilisce la sentenza 13746 della IV sezione penale della Corte di Cassazione, che ha confermato la condanna per un chirurgo e altri due medici dell'ospedale San Giovanni di Roma ricordando, tra l'altro, che tale agire è contro il Codice deontologico medico.
Il caso risale al 2001, quando i tre medici avevano sottoposto ad intervento una donna di 43 anni con tumore al pancreas e metastasi, alla quale erano stati annunciati solo 6 mesi di vita. Considerate le condizioni della donna, secondo i giudici quello dei medici è stato un "inutile accanimento diagnostico-terapeutico". Per questo la condanna non ha riguardato solo l'omicidio colposo per la lesione della milza durante l'inutile tentativo di asportarle le ovaie, ma anche la decisione di voler effettuare l'intervento chirurgico, contraria, secondo i giudici, ad ogni criterio della responsabilità, della scienza e della coscienza medica.
"Nel caso concreto – sottolinea la Cassazione - date le condizioni indiscusse ed indiscutibili della paziente (affetta da neoplasia pancreatica con diffusione generalizzata, alla quale restavano pochi mesi di vita e come tale da ritenersi inoperabile) non era possibile fondatamente attendersi dall'intervento un beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita". Questo anche se l'intervento, prosegue la Cassazione, era stato "eseguito in presenza di consenso informato della donna 44enne, madre di due bambine e dunque disposta a tutto pur di ottenere un sia pur breve prolungamento della vita". "I chirurghi pertanto - aggiunge la Cassazione - avevano agito in dispregio al codice deontologico che fa divieto di trattamenti informati a forme di inutile accanimento diagnostico-terapeutico".