Francesco Costantini è un signore di 83 anni. Alto e dal fisico asciutto. E’ nato in un piccolo paese tra l’Umbria e le Marche che si chiama Nocera Umbra. Nel 1994, quando era il responsabile Sud Europa della Parke Davis, un’azienda farmaceutica all’epoca appartenente al gruppo Warner Lambert, fu chiamato a presiedere Farmindustria nel pieno della bufera di “Farmacopoli”.
“I tre presidenti che mi avevano preceduto nella carica - è lui stesso a raccontarlo - erano alle prese con la magistratura: agli arresti domiciliari il primo; associato in carcere il secondo; inseguito da avvisi di garanzia il terzo. Noi ‘americani’ ci eravamo riuniti a Milano e avevamo deciso di reagire individuando un nuovo presidente che non fosse inquisito, che avesse esperienza del settore e che godesse di stima all’interno della categoria. La scelta era caduta su di me e alla fine di gennaio del 1994 avevo assunto una responsabilità che si sarebbe dimostrata gravosa…”
A distanza di quasi 20 anni quell’esperienza la troviamo oggi raccontata in un bel libro (da cui è tratto il passaggio che avete appena letto), scritto dallo stesso Costantini ed appena uscito in libreria con Metamorfosi e intitolato “Sì, l’Italia ce la può fare. Le confessioni di un ottimista scettico”.
Il libro attraversa, in una forma a metà tra il racconto personale e il diario storico, tutto l’arco di vita di Costantini. Un viaggio attraverso ottant’anni di vita italiana dove quel periodo alla guida di Farmindustria (dal gennaio 1994 al giugno del ’95) occupa solo 5 delle 213 pagine del libro.
Ma certamente, per noi che ci occupiamo di sanità e per me in particolare che ho avuto il piacere di lavorare al fianco di Costantini proprio in quel periodo in qualità di suo capo ufficio stampa a Farmindustria (incarico da me ricoperto dal '93 al '96), quelle 5 pagine rappresentano un'occasione unica per ricordare cosa sono stati queli anni per l'industria del farmaco nel nostro Paese.
Per questo, dopo aver ricevuto il libro e averlo letto con molto piacere ho telefonato al mio ex capo per chiedergli l’autorizzazione a pubblicare quel capitoletto particolare. La sua risposta è stata affermativa e ora potete leggerlo anche voi qui sotto in anteprima. (C.F.)
Italia, gennaio 1994. L’immagine del settore farmaceutico era inquinata dagli scandali
“La Seconda Repubblica era cominciata grazie al pool Mani Pulite che aveva demolito la Prima ed era iniziata sotto il segno di
Berlusconi.
È stato allora che ho incontrato Berlusconi a Palazzo Chigi.
All’inizio del 1994 ero stato chiamato dai miei colleghi a presiedere Farmindustria, associazione di tutte le società farmaceutiche operanti in Italia, perché il nostro ambiente imprenditoriale era stato devastato da Tangentopoli (con una versione parallela battezzata “Farmacopoli”).
I tre presidenti che mi avevano preceduto nella carica erano alle prese con la magistratura: agli arresti domiciliari il primo; associato in carcere il secondo; inseguito da avvisi di garanzia il terzo. Noi “americani” ci eravamo riuniti a Milano e avevamo deciso di reagire individuando un nuovo presidente che non fosse inquisito, che avesse esperienza del settore e che godesse di stima all’interno della categoria. La scelta era caduta su di me e alla fine di gennaio del 1994 avevo assunto una responsabilità che si sarebbe dimostrata gravosa, perché l’immagine del settore era inquinata dagli scandali, dalle connivenze con personaggi delle istituzioni considerati artefici della corruzione, dal sostegno dato in passato ai partiti politici ormai morti o moribondi e, soprattutto, dal fatto che molti imprenditori erano soggetti a misure cautelari o a indagini della magistratura.
Per due anni avrei sostenuto una battaglia difficile contro un’opinione pubblica che considerava “tutti ladri” i produttori di farmaci e l’avevo cominciata facendo opera di persuasione sui politici del nuovo Governo, cercando di illustrare i meriti di un’industria che contribuiva con la sua ricerca in maniera determinante alla salute dei cittadini.
L’incontro con Berlusconi...
Avevo cominciato con il presidente del Consiglio
Berlusconi. Ero andato a trovarlo a Palazzo Chigi e avevo ammirato la sua intelligenza e la franchezza con la quale si esprimeva, scevra da qualsivoglia ambiguità. Però il linguaggio del suo corpo mi trasmetteva nervosismo e impotenza, e un episodio che mi aveva raccontato ne era stata la conferma. «Il giorno dopo la mia elezione», aveva raccontato, «m’è venuto a trovare
Cesare Romiti che mi ha consegnato un foglietto di carta contenente il conto della spesa: tutto quello che avrei dovuto fare per la Fiat. Gli ho risposto che non ne avrei fatto nulla e nei giorni successivi Stampa e Corriere hanno dato il via a una campagna ostile nei miei confronti».
... e con i ministri della Salute Costa e del Tesoro Dini
Avevo continuato con il ministro della Sanità,
Raffaele Costa, trovando in lui un interlocutore attento e sensibile al tema dell’innovazione farmacologica, che considerava la vera missione di un’industria farmaceutica degna di questo nome. Costa aveva apprezzato una serie di iniziative che avevo intrapreso per ripristinare un’etica d’impresa all’altezza della nostra missione imprenditoriale e una trasparenza nel campo dei prezzi di vendita dei nostri farmaci, che la collettività riteneva (per lo più ingiustamente) eccessivi. E mi aveva dato spazio e sostegno dei quali, ancora oggi, gli sono grato.
Avevo continuato ancora con il ministro del Tesoro
Lamberto Dini, del quale avevo apprezzato il livello intellettuale e l’indipendenza di giudizio. Dini comprendeva benissimo le difficoltà nelle quali si dibatteva il nostro settore, schiacciato dalla furia dei magistrati di Milano e Napoli, da un’opinione pubblica ostile nella sua faciloneria e plaudente nel vedere le teste cadere dalla ghigliottina, da un ritardo di molti miei colleghi nel percepire l’irreversibilità di quel che stava accadendo. Dini non poteva fare granché, e io me ne rendevo conto, e avevo finito con l’apprezzare il suo spirito di toscanaccio un po’ irridente e molto disincantato, condito anche da un pizzico di sano cinismo.
Quando Gnutti (ministro dell’Industria) mi disse: “Siete tutti ladri”
Avevo concluso le mie peregrinazioni con il ministro dell’Industria,
Vito Gnutti, al quale andavo a far visita nel suo ufficio, dove lo trovavo sepolto dietro una scrivania monumentale. E lui, piccolo di statura sia fisica sia intellettuale, emergendo a stento dalla sua poltrona, a me che gli spiegavo l’importanza di avere una politica industriale seria per il bene del Paese, rispondeva con tono sciocco e sarcastico: «Voi siete tutti ladri». Insistevo, gli spiegavo che chi lo era andato a trovare per raccontargli le favole sulla distinzione tra corruzione e concussione non rappresentava né il presente né il futuro della nostra categoria, e lui sorrideva fatuamente e ribadiva: «Voi siete tutti ladri». Ahimè, quale abisso nei confronti del suo predecessore, il professor
Paolo Savona, davanti al quale Vito Gnutti era l’emblema della Peter's theory, di come l’ambizione, la supponenza e l’ignoranza portino l’uomo a raggiungere il livello della propria incompetenza.
Tutto il potere in mano a Garattini
Visto allora che la politica non poteva aiutarmi, mi ero rivolto altrove. E avevo ripreso la frequentazione del ministero della Sanità, dove le chiavi del potere erano tutte in mano a un illustre farmacologo, il professor
Silvio Garattini.
Qui mi trovavo a mio agio perché Garattini era uomo di grande preparazione accademica, di forte senso pratico e di determinatissimo spirito decisionista. Garattini aveva preso il controllo totale delle tre leve che condizionavano gli interessi del nostro settore: l’approvazione dei nuovi prodotti, il loro rimborso da parte del Servizio sanitario nazionale, i loro prezzi di vendita (di quest’ultima soltanto indirettamente). Garattini sosteneva una tesi di limpida razionalità: a parità di efficacia farmacologica, prodotti differenti tra loro soltanto nel marchio, nella confezione o nella struttura chimica, dovevano ricevere un identico rimborso da parte dello Stato. E in caso contrario? Cancellazione dal prontuario terapeutico, perdita del rimborso e crollo delle vendite. Una tesi così ovvia avrebbe meritato attenzione e adesione da parte dei miei colleghi, ma non era stato così e molti di essi, in Italia, in Europa e negli Stati uniti si opponevano pensando che il passato potesse ritornare. Invece non sarebbe tornato e, con ritardo, l’industria farmaceutica italiana avrebbe finito con il subire un cambiamento che, accettato subito negoziandone gradualità e compatibilità, avrebbe evitato anni di sofferenze e risollevato l’immagine del settore con prontezza.
Il rapporto con i media. Gli incontri con Barbato, Vespa e Mentana
E infine, accanto a numerose iniziative tese a migliorare la trasparenza dei comportamenti associativi, mi ero avvicinato ai media. E mi ero impegnato a scrivere articoli e rilasciare interviste su tutti i giornali (apprezzando la buona qualità e il comportamento professionale di tanti giornalisti, prima fra tutti
Laura Cesaretti, sempre diretta e precisa nel riferire fatti e opinioni), ma soprattutto a partecipare a trasmissioni televisive nelle quali spiegare le buone ragioni della mia categoria.
Ricordo con stima e con simpatia
Andrea Barbato e quel suo salotto in seconda serata, nel quale mi ero recato apprezzando le parole di
Aldo Grasso: «Esprime in toni pacati, ma fermi, la propria indignazione e il proprio dissenso dalle versioni ufficiali delle vicende politiche italiane». Lo stile sobrio, la raffinatezza e, soprattutto, il rispetto per le opinioni altrui consentiva a tutti i partecipanti al salotto di esprimersi senza interruzioni e senza prevaricazioni.
Un salotto “liberal” che sarebbe finito un anno dopo con la morte di Barbato e che tutti avremmo rimpianto negli anni successivi quando i talk show di
Santoro, di
Fazio e di
Floris avrebbero soltanto soffiato sul fuoco della guerra civile di parole che avrebbe incendiato il Paese, trasformando gli italiani da portatori di opinioni a tifosi della “curva sud”.
Ricordo con pari stima e con pari simpatia
Bruno Vespa e una trasmissione in seconda serata, alla quale avevo partecipato insieme al ministro Costa e alla signora
Teresa Petrangolini, una donna bella, colta e impegnata a combattere i casi di malasanità e di “far-matruffa”. Un salotto, quello di Vespa, molto diverso da quello di Barbato. Perché Vespa voleva una trasmissione a tema, non solo chiara e libera, ma sempre rigorosamente nel tema, senza deviazioni (alla fin fine, un po’ meno libera). Mi aveva chiesto perché gli imprenditori farmaceutici avessero praticato la corruzione e a me, che avevo risposto che ancora non c’era alcun imprenditore condannato neanche in primo grado, aveva chiesto di nuovo se pensavo che di corruzione non ce ne fosse mai stata. Così io gli avevo risposto che la corruzione è un fatto che alimenta le strutture troppo burocratiche (quindi anche quelle ministeriali) e, con straordinaria sincerità, il ministro Costa mi aveva dato ragione.
Ricordo con pari stima e con un po’ meno di simpatia
Enrico Mentana che, lui sì, puntava alla dimostrazione della propria tesi preconfezionata. E in una trasmissione nella quale si parlava della corruzione perpetrata dagli imprenditori farmaceutici, a me – che sostenevo che nessuno di essi era ancora stato condannato – aveva ribadito tranciante: «Sì, ma ci sono le confessioni». Come se le confessioni – che talvolta venivano estorte con la carcerazione prolungata, talvolta con le dichiarazioni fasulle di finti testimoni, che troppo spesso avevano inquinato Mani Pulite perché ottenute all’insegna del mors tua vita mea – meritassero credibilità. Come era tristemente avvenuto a un emerito servitore dello Stato, il professor
Francesco Antonio Manzoli, direttore dell’Istituto Superiore di Sanità, che avrebbe subito ben quattro mesi di carcerazione a causa di una confessione del tutto mendace di un piccolo imprenditore che aveva inventato una storiella per essere scagionato e tornare a casa propria. Manzoli sarebbe stato assolto con formula piena, ma la sua carriera sarebbe stata devastata dalla viltà e dall’opportunismo di un mio collega. Un nuovo caso Tortora.
Cosa mi ha insegnato Tangentopoli
In conclusione, nei due anni nei quali avevo presieduto Farmindustria avevo offerto petto e volto a tutte le palate di fango che la società civile rovesciava su di noi. L’avevo fatto con onestà ed ero riuscito a traghettare il mio settore da un clima acceso di caccia alle streghe a un clima più temperato nel quale i miei colleghi avrebbero potuto riprendere un dialogo serio con le istituzioni e con la società. L’hanno fatto e oggi sono felice di vedere come molti di essi abbiano saputo trasformare le proprie aziende e le abbiano portate ad affrontare efficacemente le nuove sfide del mercato e le nuove opportunità, rivelandosi ottimi interpreti della cultura del cambiamento: da
Alberto Aleotti ad
Arrigo e
Giovanni Recordati, a
Sergio Dompé, solo per citarne alcuni.
La complessa vicenda della Tangentopoli farmaceutica mi ha insegnato qualcosa.
Ad esempio, che i processi a tesi preconfezionate e basati su testimonianze ritenute valide solo perché confermano la tesi della procura sono la prova che la legge può produrre mostri e non è uguale per tutti (perché non tutte le procure sono uguali).
Ad esempio, che l’uso di sistemi coercitivi per estorcere confessioni, al posto di una diligente raccolta di prove a carico, è un sistema da tribunale dell’Inquisizione (nei quali si portava il presunto colpevole ad affidarsi non alla giustizia, ma alla sola clemenza della Corte).
Ad esempio, che la fuga di notizie dalle procure, pratica divenuta abituale, e la pubblicazione sulla stampa delle stesse notizie in maniera sbocconcellata non avvicina all’accertamento della verità e, malauguratamente, decreta condanne di fatto, al di fuori delle più elementari tutele dei diritti riconosciuti a qualsiasi essere umano.
Ad esempio, che quotidiani e settimanali di grande tiratura – esibendo titoli a caratteri cubitali che di fatto, implicandola, inneggiano alla condanna di esseri umani in attesa di giudizio, e relegano la presunzione di innocenza nei titoli di coda – devastano la vita di persone la cui colpevolezza è lungi dall’essere dimostrata e non servono la ricerca della verità.
Ad esempio, che una società civile non è tale se si augura di veder rotolare le teste o si eccita nel partecipare al ludibrio di un inquisito, per definizione innocente, esposto al supplizio della gogna nella sua versione moderna, iniqua e crudele, della cosiddetta “gogna mediatica”.
Ad esempio, e concludo, che l’uso dei codici e non del buon senso ha privato il nostro Paese di intelligenze e di competenze che in un Paese della common law sarebbero rimaste un patrimonio di tutti”.
Francesco Costantini
Tratto da:
Sì, l’Italia ce la può fare. Le confessioni di un ottimista scettico
Francesco Costantini
Prefazione di Giampiero Mughini
Edizioni Metamorfosi
Pagine 213 – Euro 16