toggle menu
QS Edizioni - giovedì 18 luglio 2024

Cronache

Il libro. Rampini e il welfare. Confronto Usa-Europa: "Da noi è meglio e costa meno"

di Eva Antoniotti
immagine 4 novembre - “Non possiamo più permetterci lo Stato sociale”, si sente dire da molti, convinti che il declino europeo sia dovuto alla troppa assistenza pubblica. "E' falso" spiega il corrispondente de La Repubblica da New York in un agile e ben argomentato libretto appena uscito che mette a confronto i modelli americano ed europeo
A mettere in ginocchio l’economia della vecchia Europa è stato il “modello sociale europeo”, troppo generoso con tutti e quindi troppo costoso. Una convinzione diffusa negli Stati Uniti, tanto che Romney l’ha ripresa negli ultimi giorni della campagna elettorale per le elezioni presidenziali, accusando Obama di voler riprodurre negli Usa quel modello di welfare, a cominciare dalla riforma sanitaria faticosamente varata nel mmm scorso (sia pure in una forma estremamente ridotta rispetto alle intenzioni).
 
Ma se questo “pregiudizio” non è nuovo tra gli americani, la novità è che si sta diffondendo anche da noi, sottoforma di una sorta di senso di colpa collettivo. “Non possiamo più permetterci lo Stato sociale”, si sente dire da molti, convinti che il declino europeo sia dovuto alla troppa assistenza pubblica che avrebbe prodotto deficit enormi nei bilanci statali. “Falso”, risponde Federico Rampini in un volumetto, uscito nelle scorse settimane in una nuova collana della casa editrice Laterza che si propone di raccogliere proprio la confutazione di alcuni luoghi comuni circolanti nel dibattito politico italiano.
 
Rampini, saggista e corrispondente de La Repubblica prima dalla Cina e ora da New York, smonta una dopo l’altra le premesse che portano a considerare lo Stato sociale come un lusso insostenibile. “Non credo affatto che il modello sociale europeo sia superato. Al contrario – scrive Rampini nell’introduzione – penso che nelle sue versioni più riuscite sia tuttora ineguagliato. È il migliore, di gran lunga. E non solo in base a criteri etici, o valori politici, ma anche per la sua efficienza economica. Sono gli altri a dover imparare da noi”.
 
In effetti, l’analisi della società americana non sembra proporre un modello che viene voglia di seguire: una mobilità sociale quasi bloccata, che fa tramontare il sogno americano del self made man, oltre 56 milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà e un’intera generazione, quella dei baby-boomers, che sta scoprendo che non avrà una pensione sufficiente per mantenere il proprio tenore di vita (secondo uno studio del Vanguard Group, uno dei maggiori gestori di fondi negli Usa, solo l’8% delle famiglie ha accantonamenti sufficienti).
 
E non sembra reggere neanche l’idea secondo la quale negli Usa si paghino molte meno tasse. Tra tasse federali e tasse dello Stato di residenza, i cittadini americani pagano circa il 45-50% del reddito, una percentuale non troppo inferiore a quella pagata nei Paesi europei (e che pagano tutti, perché “chi prova a fare il furbo rischia grosso”). Oltretutto, a fronte di queste tasse i cittadini hanno pochissimi servizi, come spiega Rampini attingendo anche alla propria esperienza di residente-contribuente Usa: trasporti pubblici scarsi e costosi (100 euro mensili per il metrò di New York); pensioni pubbliche ridottissime (e comunque pagate con un prelievo fiscale ulteriore); istruzione pubblica scadente o comunque costosa (8.000 dollari annui per frequentare un’università dello Stato di residenza, retta che si triplica se l’università è in uno Stato diverso).
 
Per non parlare della sanità: “In cambio delle tasse che pago – spiega il giornalista – non ho alcuna assistenza sanitaria. L’assicurazione sanitaria me la devo comprare a parte ed è costosissima: se spendo ‘solo’ 1.000 dollari al mese ho una polizza scadente, con buchi vistosi e ticket altissimi che devo sborsare io. (…) Francamente – conclude – il patto sociale americano non mi sembra così vantaggioso”.
 
Se si deve scegliere un modello, dice in sostanza Rampini, meglio guardare al modello tedesco, che in questi anni ha mantenuto saldi commerciali attivi anche nei confronti della Cina. E non lo ha certo fatto massacrando il proprio sistema di welfare: “La straordinaria competitività della Germania è stata ottenuta e preservata – scrive – con livelli di retribuzione che sono fra i più alti del mondo; un movimento sindacale che è probabilmente il più potente del mondo; un alto livello di servizi sociali; regole severe a tutela dell’ambiente”. E nella stessa linea si collocano Olanda, Austria, Svizzera e le quattro nazioni nordico-scandinave, Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia. Sistemi che producono, infatti, soddisfazione e ottimismo dei cittadini, bassi tassi di disoccupazione giovanile e “non patiscono la sindrome da declino”.
 
Ma perché, allora, la Germania non “esporta” in Europa il suo modello e anzi sta chiedendo a molti governi europei di intervenire duramente sul loro sistema di welfare? La causa, secondo Rampini, risiede sostanzialmente nell’evasione fiscale, ovvero in un basso “capitale sociale”, che corrisponde al “livello di fiducia che abbiamo nei nostri concittadini, nelle nostre istituzioni e che ci porta ad accettare la condivisione dei costi del welfare”. In Italia, ma anche in Grecia e in Spagna, questo “capitale sociale” è bassissimo. “Il modello europeo muore laddove è malata la coscienza civile, il senso del dovere, il patto che lega tutti al rispetto delle regole” scrive Rampini, aggiungendo che “non regge quel modello, nelle nazioni dove interi strati sociali hanno da tempo dichiarato una silenziosa secessione, attraverso l’evasione di massa, il parassitismo, le frodi, la corruzione”.
 
In sostanza, il modello sociale europeo crolla non per ragioni economiche, ma per ragioni fortemente politiche. E Rampini indica anche alcuni elementi in controtendenza, capaci cioè di sviluppare una coscienza civile europea al di là degli Stati nazionali, a cominciare dal programma di agevolazione degli studi all’estero Erasmus-Socrates, che ha creato “l’embrione di una nuova opinione pubblica continentale, ingrediente indispensabile per costruire l’unione politica e gli Stati Uniti d’Europa”.
 
Difendere il modello sociale europeo, respingere il tentativo di dividere l’UE in due blocchi, ritrovare le ragioni per reagire alla crisi. È questa, in estrema sintesi, la prospettiva che indica Federico Rampini, che conclude il volume con parole che sono quasi un appello: “La storia non è una gabbia. Il mondo è pieno di nazioni che hanno saputo ‘svoltare’, hanno reagito a decenni o perfino a secoli di un declino che sembrava irreversibile: dalla Cina all’India al Brasile, abbiamo formidabili esempi di popoli e classi dirigenti che hanno sconfitto la forza d’inerzia, hanno saputo imprimere un corso diverso alla propria storia. A noi l’opzione, a noi decidere quale modello considerare il nostro. È molto più di una scelta politica, è una scelta di civiltà”.
 
Federico Rampini
Non ci possiamo più permettere lo stato sociale. Falso!
Collana Idòla Laterza
pp.112, euro11.00
4 novembre 2012
© QS Edizioni - Riproduzione riservata