8 maggio -
Sono state illusrate in un incontro sul tema “Prevenzione e informazione: le sfide del tumore ovarico” promosso a Milano da Acto onlus – Alleanza contro il Tumore Ovarico– in collaborazione con l’Istituto Europeo di Oncologia in occasione della 2a Giornata Mondiale sul Tumore Ovarico, tutte le novità sulla ricerca, la terapia chirurgica e il trattamento medico di questa patologia.
“La complessità dei tumori dell’ovaio e la loro eterogeneità fa si che la malattia abbia un andamento clinico ed una risposta alle terapie diversa nelle diverse pazienti – ha spiegato
Maurizio D’Incalci, Direttore del Dipartimento di Oncologia dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano. - La ricerca si sta quindi concentrando sull’individuazione dei fattori responsabili di questa variabilità”.
Tra i risultati più recenti vi sono quelli dello studio coordinato dall’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano che dimostra la responsabilità di una molecola di RNA, denominata mir-181a, nella proliferazione delle metastasi del tumore all’ovaio e nella resistenza ai farmaci antitumorali. “La presenza di elevati livelli di tale molecola nel sangue delle pazienti con un carcinoma epiteliale ovarico (la forma più comune di tumore all’ovaio) – spiegano gli esperti in una nota - può essere un importante biomarcatore sia perché favorisce la crescita della malattia sia perché in grado di predire una resistenza del tumore alla chemioterapia. Ora gli studiosi stanno procedendo nell’individuazione dei meccanismi d’azione di questa molecola per trovare metodi efficaci con cui bloccarne l’attività per fermare la crescita e la diffusione della malattia. Questi risultati sono stati resi possibili grazie alla recente nascita delle bio-banche del tessuto ovarico ma, secondo D’Incalci, per produrre risultati a breve, si richiederà un approccio di ricerca di ampio respiro e a carattere multidisciplinare”.
Sul trattamento chirurgico è intervenuto
Francesco Raspagliesi, Direttore Unità di Ginecologia Oncologica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. La chirurgia rappresenta uno step centrale del trattamento del tumore ovarico. Essa è utilizzata per porre la diagnosi della malattia e per la stadiazione del tumore ovarico, oltre che per rimuoverlo più radicalmente possibile. “Vent’anni anni di letteratura medica ci insegnano che se la malattia viene asportata radicalmente il guadagno in termini di sopravvivenza per la paziente arriva a 40 mesi rispetto a pazienti in cui l’intervento chirurgico non ha asportato completamente la malattia” ha dichiarato Raspagliesi.
La chirurgia per il tumore ovarico richiede quindi una notevole esperienza e una estesa conoscenza della biologia e delle vie di diffusione della malattia, al fine di offrire alle pazienti le migliori possibilità di cura. Per tale motivo l’intervento chirurgico deve essere effettuato in un centro specializzato nel trattamento del tumore ovarico che risponda a tutta una serie di requisiti.
Tali requisiti devono contemplare una equipe chirurgica e anestesiologica adeguata, una reparto con una assistenza medica e infermieristica in grado di gestire il post operatorio di queste pazienti che spesso non e’ semplice, un patologo dedicato allo studio dei tumori ovarici, un radiologo dedicato alla patologia, un radioterapista esperto nel management tumori ginecologici e uno psico-oncologo che accompagni la paziente per tutto il percorso di cura.
Sul trattamento medico del carcinoma ovarico è intervenuta
Nicoletta Colombo, Direttore Divisione Ginecologia Oncologica Medica allo IEO di Milano. La chemioterapia rimane, dopo la chirurgia, il trattamento cardine di questa patologia che è, ancor oggi, il killer numero uno tra le neoplasie ginecologiche a causa del suo esordio insidioso e della difficoltà ad essere diagnosticato precocemente. “Ma con la chemioterapia, che consiste specificatamente di una associazione con carboplatino e paclitaxel, siamo arrivati al capolinea dei risultati possibili” – ha affermato Nicoletta Colombo- Oggi la nuova frontiera è rappresentata dalle terapie a bersaglio molecolare che si basano su farmaci che agiscono su bersagli particolarmente rilevanti nella genesi o nella progressione di una neoplasia. Nel caso del tumore ovarico i bersagli sono due: l’angiogenesi e il deficit di ricombinazione omologa”.
Per quanto riguarda l’angiogenesi, gli studi hanno infatti dimostrato come l’aggiunta di farmaci antiangiogenici alla chemioterapia e/o usati come mantenimento alla fine della stessa, possono prolungare il tempo di progressione della malattia anche se non è ancora possibile identificare i fattori predittivi della risposta alla terapia antiangiogenica.
Per quanto riguarda il deficit di ricombinazione omologa, sta emergendo nuova classe di agenti terapeutici denominata PARP inibitori. Il PARP è un enzima nucleare coinvolto in vari processi cellulari la cui attivazione sta alla base del fenomeno di resistenza dei tumori alla chemioterapia. I farmaci PARP inibitori attenuano tale resistenza e ripristinano la sensibilità dei tumori alla chemioterapia. In particolare, i PARP inibitori agiscono sulle cellule che hanno una alterazione della ricombinazione omologa, come ad esempio quelle con una mutazione dei geni BRCA1 e BRCA2, mutazione che può essere trasmessa in modo ereditario e che aumenta la possibilità di contrarre il tumore ovarico. Gli studi hanno dimostrato un’elevata efficacia di questi farmaci se impiegati nelle pazienti il cui tumore presenta una mutazione di questi geni. In più, a differenza dei farmaci antiangiogenetici, per i farmaci PARP inibitori esiste un marcatore predittivo di risposta che consente di selezionare le pazienti che potranno beneficiare maggiormente di questa terapia.
Il futuro prevede pertanto l’integrazione di questi nuovi farmaci a bersaglio molecolare con la chemioterapia.
La sfida riguarderà piuttosto lo sviluppo di marcatori predittivi che consentano di selezionare al meglio le pazienti che potranno beneficiare di questa strategia terapeutica.