Assistenza territoriale da riformare non da distruggere
31 MAG -
Gentile direttore,
l’emergenza medica generata dalla pandemia ha mostrato la fragilità del sistema sanitario territoriale, falcidiato dai tagli degli anni passati, ma ha anche mostrato la validità di un modello che ha garantito l’assistenza alla grande maggioranza dei pazienti colpiti dal Covid. L’ottanta per cento dei malati Covid è stato curato a casa, assistito dai medici di medicina generale che hanno svolto ancora una volta con competenza il proprio lavoro, talvolta mettendo a rischio o perdendo la vita in servizio per assistere i propri pazienti.
Un lavoro che continua anche oggi, ogni giorno. Eppure, nonostante questo, la medicina di famiglia, a momenti alterni, finisce comunque nel mirino dei media e quindi dei cittadini (ultimo esempio un DataRoom del Corriere uscito il 24 maggio firmato da Milena Gabanelli).
L’obiettivo, apparentemente, sembra quello di portare avanti una battaglia di riforma per un servizio che si ritiene non sufficiente, lasciando intendere, più o meno esplicitamente, che ciò accade soprattutto per colpa delle persone che lo svolgono.
Come in tutte le categorie di lavoratori, anche tra i medici di famiglia ci possono essere coloro che si impegnano meno, ma dopo 18 mesi in cui abbiamo perso 359 colleghi per Covid (e la metà di loro sono proprio Medici di Medicina Generale), impegnati sul campo ben oltre le loro prerogative, è chiaro che certe aggressioni a mezzo stampa nascondono qualcosa di più recondito che appare però sempre più chiaro: da un lato la spinta a privatizzare il servizio di medicina generale (d’altra parte alcuni ambulatori territoriali privati sono già in essere e fanno affari d’oro), dall’altro impoverire la medicina del territorio pubblica e universalistica esercitando una notevole pressione per trasformare dei liberi professionisti (per quanto convenzionati con il sistema sanitario nazionale) in dipendenti pubblici.
Con la conseguenza di cancellare la capillarità degli studi e il grande valore aggiunto, storico, del medico di famiglia italiano: quello di essere – appunto – il medico della famiglia, di fiducia e di libera scelta di ogni paziente, e quello del rapporto continuativo con i propri assistiti.
Ai medici di medicina generale si rimprovera anche di essere addirittura la causa degli intasamenti al pronto soccorso per codici bianchi e verdi. Una assoluta falsità, una vera mistificazione. I codici di
triage non sono stati creati per classificare
tout court la gravità delle patologie da cui è affetto il paziente, ma, semplicemente, la priorità che egli deve avere rispetto agli altri casi.
D’altra parte, coloro che hanno in mente di trasformare i medici di famiglia in impiegati dello Stato, burocrati alle dipendenze di fantomatiche Case della Salute, in realtà, a mio parere, hanno come obiettivo sottaciuto quello di operare nuovi e pesanti tagli alla medicina del territorio, ridurre ulteriormente il numero di medici in servizio e livellare al basso la medicina generale, spersonalizzandola.
L’emergenza generata dalla pandemia ha mostrato la fragilità del sistema territoriale falcidiato dai tagli degli anni passati, ma ha anche mostrato la validità di un modello che ha garantito l’assistenza alla stragrande quantità di pazienti colpiti dal Covid. L’ottanta per cento dei malati Covid è stato curato a casa, assistito dai medici di medicina generale. I medici di famiglia hanno svolto ancora una volta con competenza il proprio lavoro, talvolta mettendo a rischio o perdendo la vita in servizio per assistere i propri pazienti.
Per una riforma seria della medicina del territorio, davvero al servizio del cittadino, non occorre far la guerra ad una categoria di persone, non occorre ‘cancellare’ un servizio, ma serve riformare e irrobustire il sistema mettendo in rete (ma una rete che funzioni davvero, non come quella attuale, che fa acqua da tutte le parti) i medici liberi professionisti convenzionati con i dipartimenti specialistici, ospedalieri, assistenziali, con la medicina scolastica, con i servizi di igiene e sanità pubblica, con la medicina del lavoro.
Una riforma possibile, che la digitalizzazione forzata, causata da 18 mesi di Covid rende ancora più semplice. Una riforma necessaria, visto il deciso calo di medici causato dalla mancata sostituzione dei medici andati in pensione e di coloro che hanno perso la vita, soprattutto nelle Regioni del Centro-Nord. Una riforma però che sarebbe maledettamente scomoda, poiché impedirebbe lo sviluppo di altri appetiti e di interessi e servizi ben più remunerativi per chi li promuove.
Roberto Carlo Rossi
Presidente Omceo Milano
31 maggio 2021
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