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Coronavirus. Ecco perché la sanità territoriale in Lombardia non era pronta

14 APR - Gentile Direttore,
da consigliere regionale ho partecipato ai lavori nel 2014-2015 per la riforma del servizio socio-sanitario regionale in Lombardia, culminata con la legge regionale 23/2015, i cui effetti possiamo valutare ora anche in relazione alla attuale emergenza Coronavirus.

Questa emergenza, infatti, ha portato al pettine drammaticamente tutti i nodi e la debolezza dei servizi sanitari territoriali della Regione Lombardia, dimostrando una volta di più che non era un caso che la Lombardia in questi anni finisse sempre in 5^ posizione tra le Regioni italiane nella classifica dei Livelli Essenziali di Assistenza.

Sappiamo che il Covid19 si affronta su due piani: ospedaliero - per salvare le vite di chi è più gravemente colpito - e territoriale - per arginare il contagio e diminuirne la letalità.
Mentre sul primo piano gli ospedali lombardi -a partire dalla generosità e competenza di quelli pubblici- han fatto miracoli moltiplicando in poche settimane le terapie intensive e le pneumologie (anche se purtroppo sono diventati essi stessi luoghi di diffusione del contagio...), sul piano territoriale i Servizi di Prevenzione, i Poliambulatori, i Consultori, i Medici di famiglia, indeboliti da anni di politiche regionali ospedalocentriche, faticano ancora adesso -a quasi due mesi dal Paziente1- a mettersi in pista in modo coordinato ed efficace sul territorio per evitare che i casi lievi si aggravino arrivando in ospedale già compromessi, e per mettere tempestivamente in quarantena sorvegliata i familiari e i contatti stretti dei positivi, evitando di farli diventare incolpevoli vettori di ulteriori contagi.

Ma tutto questo non dipende certo da chi opera sul territorio, intendiamoci bene.

La responsabilità, a parte che per il blocco nazionale del personale, è di una governance regionale che neanche quella riforma socio-sanitaria del 2015 ha saputo cambiare oltre le buone intenzioni e lo slogan “Dal curare al prendersi cura”, andando a indebolire sempre più proprio la componente territoriale del servizio socio-sanitario lombardo.

Da una parte in 5 anni non sono state seriamente poste in essere le pur buone previsioni come i Presidi Ospedalieri Territoriali (POT, che potevano essere le Case della Salute in salsa padana), e i Presidi Socio-sanitari Territoriali (PreSST), inficiati anzi dall’istituzione nel 2017 degli Enti Gestori per la cronicità (in maggior numero privati, e rimasti al palo).

Dall’altra parte, con la creazione del sistema ATS-ASST (Agenzie di Tutela della Salute e Aziende Socio-Sanitarie Territoriali), quella riforma ha commesso un peccato originale che anziché aumentare l’integrazione ospedale-territorio ha finito per mortificare il secondo: faccio riferimento all’accorpamento sotto una unica Direzione Generale sia del ramo ospedaliero che del ramo territoriale delle ASST, con l’abolizione delle ASL, creando un unicum in Italia che -non a caso- indusse l’allora Governo ad approvare sub iudice la riforma, bollandola come “sperimentale” e da sottoporre a una verifica dopo tre anni, nel 2018 (mai avvenuta, peraltro).

È successo così che l’attenzione dei Direttori Generali, tutti con sede negli ospedali, è stata fatalmente risucchiata dai problemi degli ospedali, con una regìa dei servizi territoriali indebolita, divisa tra la parte operativa di Direttori sociosanitari “in cerca d’autore”, e la parte programmatoria delle ATS, deprivate tra l’altro di Conferenze dei Sindaci con reali competenze, pur essendo questi attori fondamentali del territorio.

Come se non bastasse, da quel 2015, in Lombardia i Distretti Sociosanitari -deputati all'erogazione delle cure primarie sul territorio- sono stati aggregati in “mega-Distretti”, con un numero di abitanti in alcuni casi 4 o 5 volte superiore ai Distretti originari (senza adeguamento proporzionale delle risorse); i Poliambulatori pubblici hanno subito spesso analoga sorte di accorpamento, scoprendo interi territori (spesso ora coperti da poliambulatori privati); l’Assistenza Domiciliare Integrata è rimasta una delle più scarse d’Italia per percentuale di assistiti sulla popolazione; la programmazione di settore è andata a singhiozzo; il Fondo sociale regionale è stato più che dimezzato con il dirottamento su voucher e bonus di soldi ad personam sottratti al sostegno della rete dei servizi territoriali... fino ad arrivare alle ciliegine sulla torta: il Piano Socio-sanitario regionale è scaduto da 6 anni, e il Piano Pandemico regionale è rimasto fermo all’aggiornamento della Delibera di Giunta n.IX/1046 del 2010...

E così si capisce perché oggi le ATS non sono in condizione di fare sufficienti telefonate per quarantenare le migliaia di positivi accertati ogni giorno e i loro contatti stretti; perché i Dipartimenti di Prevenzione, dove dovrebbero operare gli specialisti della lotta al virus, sono rimasti sguarniti; perché i Servizi per la sicurezza negli ambienti di lavoro faticano a fare l’assistenza e il controllo delle attività  aperte; perché i Medici di Famiglia non sono stati protetti, coordinati e supportati dalla Regione, mettendoli in rete e dotandoli di strumenti per la sorveglianza attiva anche da remoto degli assistiti più fragili; perchè tutto il sociosanitario (non solo le RSA) non è stato adeguatamente sostenuto; perché le USCA, Unità Speciali per la Continuità Assistenziale al domicilio -partite su indicazione nazionale- sono troppo poche per poter raggiungere tutti i casi sospetti per fornire cure precoci, farmaci, ossigenoterapia o radiografie mobili per diagnosi tempestive...

E quando - nel silenzio della città deserta per il lockdown - si sente l’ennesima sirena di un ambulanza che sfreccia, ci chiediamo sgomenti: saranno arrivati in tempo?!...

Carlo Borghetti
Vice Presidente del Consiglio regionale della Lombardia
Capogruppo PD in Commissione Sanità negli anni della riforma regionale (2013-2018), e a tutt’oggi componente della Commissione Sanità del Consiglio regionale


14 aprile 2020
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