L’Evidence Based Medicine è un metodo, non una verità assoluta
di Giampaolo Collecchia
15 MAG -
Gentile Direttore,
i medici sono spesso accusati di applicare in maniera eccessivamente limitata la Evidence-Based Medicine (EBM), intesa come mezzo per trasferire in maniera automatica le acquisizioni sperimentali alla pratica clinica. In realtà, secondo D. Sackett, il padre fondatore, praticare l’EBM significa integrare l’esperienza clinica individuale con le migliori conoscenze esterne, derivanti principalmente dalla revisione sistematica degli studi clinici relativi a un determinato argomento (1).
L’EBM dunque come sintesi di due polarità: da un lato le migliori evidenze presenti in letteratura, dall’altro l’esperienza professionale del medico, comprendente la capacità di valutare la trasferibilità e l’appropriatezza dei dati sperimentali per il singolo paziente, tenendo conto dei suoi valori e preferenze.
Come afferma G. Gensini “
nella sintesi fra oggettività scientifica e soggettività del paziente sta quindi la corretta applicazione della metodologia basata sulle evidenze, in cui l’applicazione delle proposte derivanti dalla ricerca clinica scientificamente validata è affiancata dalla valorizzazione della verificabilità empirica delle conoscenze da parte del medico” (2).
Tale integrazione rappresenta una sfida culturale, soprattutto nel setting della medicina generale (MG), luogo paradigmatico del passaggio dalla ricerca alla pratica, dove è forte il rischio da una parte di subire una sorta di tirannia delle evidenze, dall’altra di sviluppare una presuntuosa autoreferenzialità, un arroccamento a difesa del proprio isolato agire clinico, il cui principale riferimento è non raramente rappresentato dalle informazioni fornite dalle ditte farmaceutiche.
L’applicazione della EBM, soprattutto nell’ambito delle cure primarie, incontra in effetti una serie di difficoltà, alcune intrinseche alla metodica, altre specifiche della MG. Questa, disciplina autonoma, presenta diverse specificità in grado di modularne i riferimenti e ridefinirne la prassi: la dimensione del tempo, nella quale si realizza la storia, unica, in continua evoluzione, tra il medico e il suo paziente, la conoscenza profonda di questo e del suo contesto di vita, l’attitudine ad agire nell’incertezza, a confrontarsi con quadri clinici indefiniti e caratterizzati dalla sovrapposizione di più problemi, il maggiore potere negoziale espresso dai pazienti, il rapporto con l’infermità del malato, intesa come interazione tra la malattia e l’influenza di questa sulla propria vita (4).
Per questo, ad esempio, la variabilità prescrittiva, spesso utilizzata come paradigma di comportamento non evidence-based, non deriva semplicemente da ignoranza o errore ma è in buona parte espressione di specificità della MG. Vari studi hanno infatti dimostrato che il MMG, nel prendere decisioni di natura terapeutica, si basa frequentemente su fattori non clinici, ad esempio sulla percezione del desiderio non dichiarato del paziente di assumere farmaci, tanto che le prescrizioni farmacologiche si concentrano prevalentemente nel sottogruppo di pazienti che se le aspettano (5,6).
Nella terapia delle malattie delle prime vie aeree la dissociazione tra conoscenze scientifiche e pratica clinica è particolarmente manifesta. Tutti i MMG sanno che si tratta in prevalenza di affezioni virali, nelle quali gli antibiotici non sono utili. Uno studio ormai classico (7) ha peraltro evidenziato il ruolo essenziale di ulteriori variabili rispetto al semplice esito clinico, di per sé indipendente dall’utilizzo della terapia antibiotica o di quella sintomatica: soddisfazione del paziente, necessità di mostrare concretamente il prendersi cura, necessità di legittimare lo stato di malattia, con le relative conseguenze sul piano sociale (astensione dal lavoro) e familiare (ruolo di malato).
Il fatto che le proprie decisioni siano fondate su tali elementi viene vissuto dal medico con una sensazione di disagio (8), non sufficiente peraltro a modificare il proprio comportamento in senso esclusivamente clinico.
La dimostrazione di efficacia di un determinato intervento non determina automaticamente la decisione di utilizzarlo nella pratica. In ambito terapeutico, dove è maggiore l’utilità dell’EBM, i trial possono rappresentare l’ideale come disegno sperimentale ma sono in grado di rispondere (non sempre peraltro) ad una sola delle domande che ci dobbiamo porre riguardo ad un intervento sanitario: quella sull’efficacia dell’intervento in sé (il sapere). Non garantiscono che l’intervento effettuato sia il più indicato per quel paziente, in quel determinato momento della sua storia e in quello specifico contesto.
La trasferibilità di un dato alla pratica quotidiana implica infatti un giudizio di valore (il sapere che fare) (9). Si tratta di passare dall’efficacia all’effettività, dai dati oggettivi, preliminari e probabili, ai giudizi soggettivi, condivisi con il paziente, sulla praticabilità e appropriatezza di un intervento. La cura, “ideale” secondo i dati di letteratura, deve essere giudicata fattibile, le prove pesate su una diversa bilancia, con una taratura differente.
Emblematico è il concetto di NNT (numero di pazienti da trattare per evitare un evento, dall’inglese “number needed to treat”), parametro utile a quantificare l’utilità pratica di un intervento. A parità di NNT le scelte decisionali sono diverse, in funzione di diverse variabili, cliniche e contestuali, quali tipo di patologia, livello di rischio assoluto, tipo di intervento (efficacia, costo, tollerabilità, disponibilità pratica), impatto sociale, scelta informata del paziente .
L’EBM non è una verità assoluta ma un metodo, in grado di fornire risposte solo a domande poste in termini compatibili, cioè a domande la cui interpretazione sia oggettiva. Queste peraltro rappresentano soltanto una delle prospettive da cui può essere inquadrata la complessità del paziente. Infatti, soprattutto in MG, le prestazioni sanitarie inerenti agli aspetti strettamente clinici delle malattie rappresentano solo una parte delle cure e le decisioni dei MMG sono largamente influenzate dalle esigenze/preferenze dei pazienti, soggetti di diritto, capaci di autodeterminazione, collocati in un contesto spazio-temporale e culturale ben definito.
L’EBM rappresenta l’approccio ottimale quando l’intervento può essere centrato prevalentemente sulla malattia e quindi, come affermato da E. Parma e V. Caimi, “
è applicabile alla pratica della MG soltanto per situazioni marginali (non per importanza ma per impatto lavorativo). Può essere invece proficuamente intesa come uno strumento di lavoro per affrontare i problemi clinici” (4).
La sua collocazione è a monte del processo decisionale e non alla fine, quando può diventare più importante la condivisione delle strategie con il paziente, talvolta identificando obiettivi diversi da quelli per i quali esiste la migliore prova in letteratura. Le valutazioni sulla appropriatezza delle scelte in ambito sanitario devono necessariamente tenerne conto, per evitare di confondere la qualità delle cure con una pedissequa, rigida e non soddisfacente uniformità.
Dott. Giampaolo Collecchia
MMG, CSeRMEG, Massa (MS)
Note:
1. Sackett DL et al. Evidence-Based Medicine: what it is and what it isn’t. BMJ 1996; 312: 71-2
2. Gensini G. EBM ed. italiana; vol. 1, n° 1, Maggio 1997
3. Ely JW et al. Obstacles to answering doctors’ questions about patient care with evidence: qualitative study. BMJ 2002; 324: 1-7
4. Parma E., Caimi V. Medicina delle prove di efficacia e medicina generale. In: Liberati A. La medicina delle prove di efficacia. Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1997
5. Virji A, Britten N. A study of the relationship between patients’attitudes and doctors’prescribing. Fam Pract, 1991; 8: 314-9
6. Webb S, Lloyd M. Prescribing and referral in general practice: a study of patients’expectations and doctors’action. Br J Gen Pract 1994; 44: 165-9
7. Little P. et al. Open randomized trial of prescribing strategies in managing sore throat. BMJ 1997; 314: 722-7
8. Bradley CP. Unconfortable prescribing decisions: a critical incident study. BMJ 1992; 304: 294-6
9. Tombesi M. L’inizio della libertà clinica. I trial clinici non possono decidere per noi. Ricerca & Pratica 1995; 11: 49-51
15 maggio 2019
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