La professione medica e quell’abissale distanza dai problemi della vita reale
di Fabio Cembrani
09 MAR -
Gentile Direttore,
il Suo giornale continua a pubblicare autorevoli commenti sulla crisi di identità che ha investito l’arte della cura che è una crisi strutturale, molto complessa, poco partecipata, davvero profonda. Le cui cause sono ampie e tra loro diverse anche se non si possono tenere sotto coperta le nostre personali responsabilità nel tentativo, davvero vano, di dare la colpa a qualcun altro.
Perché il nostro sapere, invece che guardare ai cambiamenti epocali in corso considerandoli non un ostacolo ma un’opportunità per rivedere sistematicamente i nostri apparati concettuali, si è irrigidito ed appallottolato su sé stesso, pensando che, prima o poi, i loro effetti si sarebbero placati consentendo così la nostra riemersione in forma integra.
Dimenticando che la tattica dello struzzo (l’animale, messo a contatto con un pericolo, nasconderebbe la testa nella sabbia per non vederlo) non è mai una strategia accorta, soprattutto nel medio-lungo periodo: non trovando avversari, il pericolo diventa ancor più robusto e, viceversa, chi si sottrae ad esso facendo finta di non vederlo si indebolisce ed impigrisce gradualmente ma del tutto irreversibilmente.
Questo è ciò che è accaduto all’arte della cura la quale non ha né voluto né saputo dare una risposta alle grandi questioni della modernità affidandosi passivamente al potere della tecnica senza però rivendicare la sua autonomia, nonostante la sua progressiva colonizzazione da parte di altri mondi, le cui similitudini con la nostra lunghissima tradizione sono però tutte da dimostrare.
Certo, l’invasione di campo è stata sicuramente favorita da addetti all’ordine pubblico poco attenti e da guardalinee molto svogliati, molto probabilmente fors’anche collusi. Tra essi, i savant degli agguerriti management aziendali che hanno contribuito a trasformare la cura in una professione sostanzialmente impiegatizia, formale, esecutiva, sempre meno intellettuale: con una facile metafora, una tabellina a due colonne in cui sono inserite da un lato le voci di spesa, dall’altra le prestazioni attese ed i loro introiti sulla base dei perversi meccanismi dei DRG nazionali. Consegnata, a fine anno, a qualcuno investito del potere di tirare le somme con una premialità condizionata dalla performance e non certo dalla value prodotta.
La medicina è stata così trasformata in catena produttiva, le sue logiche sono diventate di tipo mercantile ed i professionisti sono stati trasformati in line (linea produttiva) con la conseguenza che la loro autonomia è stata compressa dai processi di razionalizzazione e di efficientamento di ogni setting di lavoro che sembrano essere diventati oggi i veri limiti da non superare: veri e propri guru di una medicina che si è trasformata, nel nostro Paese, nella sanità pubblica amministrata o di ciò che essa resta visto il continuo (de)finanziamento del Servizio sanitario nazionale nonostante le promesse politiche infervorate, ogni volta, dalle scadenze elettorali.
Con due ulteriori fattori potenziativi che hanno aggravato la nostra crisi di identità: la normativizzazione dell’etica pubblica e l’amministrazione della medicina. Per ridurre ed ancor meglio controllare l’autonomia del medico già messa a dura prova dagli agguerriti apparati di controllo e di gestione interna individuati in ogni struttura sanitaria si è così usata la clava del diritto che è pesantemente intervenuto, specie alla fine dell’ultima legislatura, nella regolamentazione di quegli ambiti della cura che potevano ancora creare qualche problema.
È cosi che si sono approvate sfacciate (non buone) norme che hanno istituito un sistemo statalizzato di bestpactice e di guidelines molto probabilmente per il controllo di quelle internazionali, illudendo però i medici che questa nuova riforma li avrebbe salvaguardati dalla rischiosità della malpractice. È cosi, ancora, che si è deciso di intervenire sul consenso informato con una disciplina davvero opinabile, certamente poco innovativa, che ci è stata spacciata come legge sul biotestamento o sul fine della vita nella quale, tra l’altro, si rinvia alle aule di giustizia la soluzione delle molte criticità che hanno a che vedere con l’autonomia decisionale medica.
Ed è ancora così che, più recentemente, l’indipendenza della deontologia professionale è stata subordinata al rispetto delle regole previste dai contratti collettivi di lavoro ed alle altre regole di funzionamento interno delle diverse amministrazioni anche se la legge che porta la firma dell’ex Ministro alla salute si è resa protagonista di scarsi bonus elettorali pur ammiccando agli osteopati, ai chiropratici, agli psicologi ed agli operatori socio-sanitari.
L’autonomia del medico è stata così nuovamente ridimensionata e la medicina amministrata si è così impadronita di altri ambiti della vita pubblica nei quali, fino a non molto tempo fa, erano prioritarie altre fondamenta. Un altro colpo mortale assestato a chi ha la responsabilità della cura sottoposto ad una serie di vincoli, di imposizioni, di clausole, di divieti e di gabole che, alla fine di tutto, diventeranno veri e propri ostacoli alla tutela di quel bene di cui si fa ancora garante la nostra Carta costituzionale.
Peccato davvero che i medici non si siano accorti di ciò che è realmente accaduto e che essi continuino ad illudersi di poter un giorno finalmente recuperare il loro ruolo e la loro credibilità, anche sociale. Desolante è il silenzio delle Società scientifiche che su questi ambiti tematici non hanno mai preso una posizione congiunta. Poco comprensibile il silenzio colpevole della FNOMCeo che si è limitata a lasciare alcuni Tavoli di lavoro senza però far sentire la sua voce. E davvero allarmante la distanza dimostrata su queste questioni delle organizzazioni sindacali che fanno finta di pensare a tutto quando ci chiedono di pagare la quota di iscrizione ma che non hanno mai posto la questione dell’autonomia medica come questione centrale nei rapporti contrattuali.
Altri allarmanti segnali del nostro inesorabile impigrire professionale, della nostra abissale distanza dai problemi della vita reale e della nostra intollerabile superficialità.
Fabio Cembrani
Direttore U.O. di Medicina Legale
Azienda provinciale per i Servizi sanitari di Trento
09 marzo 2018
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