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Piano Nazionale Aids 2017-2019. Ancora sottovalutati gli aspetti psicologici

di Alberto Vito

09 APR - Gentile direttore,
E’ di recente pubblicazione il Piano nazionale di interventi contro Hiv-AIDS 2017-2019, documento programmatico che, come scrivono gli autori, “si propone di delineare il miglior percorso possibile per conseguire gli obiettivi indicati come prioritari dalle agenzie internazionali”.

Diversi sono gli obiettivi proposti e meritevoli di attenzione. Tra questi sono degni di nota aspetti come la riduzione del numero delle nuove infezioni, il mantenimento in cura dei pazienti sieropositivi, la riduzione dei fallimenti virologici e delle diagnosi tardive, la lotta alla stigmatizzazione sociale e l’attivazione di campagne di informazione con soluzione di continuità.

E’ interessante notare che per ogni area passata in esame, oltre agli obiettivi da raggiungere, nel Piano si indicano gli interventi da effettuare, le criticità rilevate e, soprattutto, gli attori da coinvolgere per rendere operativi i propositi.

E’ proprio a partire da quest’ultimo punto che è possibile rilevare alcuni limiti del piano, in parte legati all’impostazione prevalentemente medica dello stesso, a scapito di una visione più globale dell’ammalato, che riconosca la dimensione interdisciplinare della cura di qualsiasi importante patologia organica.

L’Hiv è infatti una di quelle condizioni in cui, anche a causa del coinvolgimento della vita sessuale e per il perdurare di uno stigma sociale, è più evidente l’importanza di un intervento psicologico. Lungi dal sottovalutare il ruolo centrale delle terapie e dei supporti medici e farmacologici, è però noto come la diagnosi di HIV abbia degli impatti enormi sulla psicologia dei pazienti, soprattutto con l’allungamento dell’aspettativa di vita delle persone con diagnosi di sieropositività, che si trovano a dover fare i conti con emozioni, abitudini e, più in generale, modi di stare-al-mondo certamente diversi da quelli precedenti alla diagnosi.

Lungi anche dal voler fare un’analisi puntigliosa e ipercritica del Piano, balza però all’attenzione che la parola “benessere” compaia solo tre volte nelle 56 pagine che lo compongono e che, al contempo, la dimensione psicologica o, meglio ancora, quell’idea di cura globale di cui tanto si parla, risulti ancora una volta adombrata dall’attenzione agli aspetti più medici dell’infezione. Eppure oggi nel nostro Paese esistono realtà in cui diverse figure professionali collaborano per offrire alla persona con HIV/AIDS un’assistenza che tende ad essere sempre più a 360 gradi.

E’ chiaro che la presa in carico degli aspetti medici dell’infezione sia fondamentale, ma deve essere chiaro anche che l’universo HIV, come del resto molte altre patologie organiche, rappresenta per i pazienti più che una condizione medica. Nella persona sieropositiva, di diagnosi più o meno recente, temi come la ridefinizione dell’immagine di sé, la gestione dello stigma, l’aderenza a protocolli farmacologici “a vita”, la sessualità, l’emotività legata all’”essere infetti”, il senso di colpa o di rimorso, la comunicazione ad altri della propria diagnosi, la ricerca di nuovi “partner” sono centrali e si intrecciano alla storia personale di ogni malato, risultando quindi inevitabilmente legati alle risorse che le istituzioni metteranno o meno in campo nel percorso di adattamento alla nuova condizione. Ed è importante capire che molti di quegli obiettivi proposti nel Piano, tra i quali l’aderenza alla terapia, la soppressione virologica, la riduzione della perdita di pazienti seguiti presso i Centri Clinici, l’equilibrio psicologico, l’adozione di comportamenti consapevoli e quindi la stessa diffusione del virus, passano inevitabilmente dal grado di elaborazione e di accettazione dell’infezione da parte di ciascun paziente.

E’ ovvio che soltanto una posizione culturale retrogada e saccente può far credere che invocare l’assistenza psicologica per i pazienti Hiv significa voler immaginare per tali persone l’esistenza di turbe psichiche, che ovviamente non ci sono. Si è ormai affermata nel mondo scientifico una visione secondo cui tutte le patologie organiche (da quelle oncologiche a quelle cardiologiche, ad esempio) sono eventi critici, sia individuali che familiari, che comportano “sempre” una quota di stress, che può tradursi in ansia, depressione, chiusura sociale. Così come è noto che il modo con cui l’individuo e la sua famiglia “elaborano” la malattia gioca un fattore decisivo sull’efficacia del percorso di cura.

Se si considera tutto questo, appare carente lo spazio che il Piano dedica alla dimensione più operativa della cura degli aspetti psicologici e sociali delle persone con HIV o AIDS. Sarebbe invece stato notevole sottolineare la necessità di interventi integrati centrati realmente sulla qualità della vita dei pazienti, realizzati da equipe multidisciplinari composte ad esempio da medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, mediatori culturali, ai quali il Documento pare dare rilevanza solo rispetto a quegli ambiti di solito definiti critici, come quello delle donne in gravidanza o dei minori non accompagnati. Così come non va confuso il ruolo prezioso delle associazioni di volontariato con l’intervento dello psicologo. Si tratta di ambiti che possono sicuramente trovare ampie aree di collaborazione, pur conservando le proprie specificità.

Sembra quindi che in questo modo il Piano vada proprio in direzione contraria a quanto propone, perpetuando la sottovalutazione di quelle dimensioni dell’infezione da HIV e dell’AIDS che a nostro avviso non possono ancora passare in secondo piano quando si desidera delineare quel “migliore percorso possibile” già citato in precedenza.

Dott. Alberto Vito
Responsabile UOSD Psicologia Clinica Ospedali dei Colli


09 aprile 2017
© Riproduzione riservata

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