Gentile Direttore,
quando ci si imbatte in crimini che sembrano incomprensibili per la motivazione, o che turbano emotivamente per le modalità, sorge puntuale l’ipotesi di una infermità mentale del reo. E fioriscono pareri clinici a distanza di criminologi e psichiatri che, sulla base di ciò che i giornali riportano, esprimono pareri degni della migliore tradizione patografica dell’Ottocento.
Lo stigma, che pone la paura di violenza per i pazienti psichiatrici, crea anche la facile associazione speculare fra una certa violenza e la malattia mentale.
L’ingrediente di fondo è soprattutto l’incomprensione per l’atto, o meglio, il fatto che non ci è semplicemente inquadrabile alla luce di delle motivazioni per i comportamenti catalogati nel comune sentire della psicologia popolare. Questi individuano come “criminale" ad esempio una violenza finalizzata a impossessarsi di beni, in quanto violazione delle regole approvate nella conquista di obiettivi economici socialmente accettati e valorizzati, ma ipotizzano come “follia" le situazioni dove questa violenza è apparentemente afinalistica, “gratuita” appunto, o appartiene logiche puramente personali ed interiori del reo.
In questo ha un ruolo importante quanto è socialmente condiviso: attualmente vediamo con sospetto clinico l’attaccamento al partner che porta all’omicidio e consideriamo una patologia narcisistica la lesione che comporta l’essere abbandonati, ma in passato il delitto d’onore in fondo ratificava come legittimi questi sentimenti, senza che nessuno si sognasse di chiedere una perizia psichiatrica.
L’orientamento dominante poi porta a ritenere che un delitto, compiuto per delirio su nemici immaginari, della cui irrealtà si auspica che la persona si renda conto con la cura, debba essere trattato differentemente da un delitto compiuto razionalmente contro nemici reali e di cui successivamente la persona si penta ritenendolo inadeguato. E che quanto compito quando si soffre di una patologia mentale che porta un forte disagio quotidiano nel vivere debba essere trattato differentemente rispetto a patologie fisiche che inaspriscono anche esse quotidianità e relazioni altrimenti serene.
Attualmente la criminologia ama molto poi le ricostruzioni romanzate delle dinamiche infantili delle persone, costruendo storie emotivamente avvincenti che offrano una trama comprensibile del delitto, anche se non è poi molto chiaro quali siano i dati scientifici che garantiscono i nessi fra queste dinamiche ed i comportamenti, e soprattutto li definiscano nei termini assoluti e deterministici necessari per cancellare la capacità di decidere. L’idea della infermità mentale ha in fondo una proposta deterministica, dove i limiti patologici sostituiscono interamente la persona, riproponendo la questione che esisteva nel 1700 sulla possibilità per il matto di avere una parte sana che potesse ricevere i sacramenti religiosi, che richiedevano un’area immune, un resto di ragione che garantisse l'anima ma quindi anche la responsabilità.
Ancora una volta la psichiatria scambia la comprensione per spiegazione e di dimentica di quando Jaspers sottolineava: che leggere l’umano con i nessi comprensivi del senso comune non costituisce alcuna base scientifica; comprendiamo il suicidio in autunno, ma dobbiamo rassegnarci al fatto che la statistica ci dice che è più frequente in primavera.
Eppure, ancora una volta in psichiatria forense si ritiene che le nostre narrazioni psicologiche siano ricostruzioni scientifiche e non romanzo.
Analogamente si mostrano le linee alterate della personalità del reo, come se essere “solamente” criminali non sia anche esso un modo specifico di rapportarsi nelle confronti delle persone e del mondo. Oppure si rispolverano le personalità sociopatiche, come se, nel miscelare follia e criminalità, spiegassero qualcosa.
Aleggia su tutto l’idea, poco sostenibile, che l’uomo di base sia razionale e quello che si discosta da questa si discosta anche dalla sanità mentale.
La ricerca della infermità mentale si pone poi all’interno di una cornice che utilizza concetti quali la capacità di intendere e volere, che appartengono ad una psicologia delle funzioni che da un secolo non ha più senso, e che hanno perso chiara definizione, ammesso che l’abbiano mai avuta. O di una nozione di pericolosità dove la psichiatria finge di poter predire comportamenti quando non è in grado di farlo.
Questa visione comporta alcuni problemi.
Il primo è che la mancanza di responsabilità per patologia chiede che vi sia qualcuno che se ne faccia carico. Ed allo stesso modo dei bambini per i quali si ritengono responsabili i genitori, alla fine è lo psichiatra che viene visto come colui che deve gestire le responsabilità del malato, che finisce per esistere solo in quanto patologia.
Il secondo è che si ripropone in maniera forte lo stigma del nesso psichiatria/violenza, confermando che, ogni volta che in psichiatria si cercano percorsi di apparente tutela protettiva per qualche paziente, si finisce per costruire pregiudizi per la loro totalità.
Il terzo è che la malattia pone il problema della cura, che alla fine il giudice definisce per legge in luoghi psichiatrici. L’idea è che questa operazione non possa essere fatta dal carcere, e sia poi comunque destinata a buon fine, anche se obbligatoria e ristretta, in questo obbligo, allo stesso tempo corrispondente alla pena. Curiose idee entrambe, la prima perché cancella l’idea che il carcere possa/debba essere riabilitazione e non solo espiazione, e la seconda perché ritiene che tutto sia curabile ed anche nei tempi stabiliti per sentenza.
Siamo sicuri che la strada di punire differentemente a seconda del reo reati simili sia quella più sensata? E che si ipotizzi che i succedanei degli ospedali psichiatrici giudiziari debbano essere necessariamente migliori rispetto al carcere e migliorabili a differenza di questo? In pratica: la nostra nozione penale di infermità mentale giova alla giustizia, alla psichiatria, a vittime e rei?
Non sarà il caso di rivedere questi costrutti ponendo in dubbio l’istituto giuridico della infermità mentale?
Andrea Angelozzi