Il riconoscimento e la gestione di un paziente cronicamente affetto da dolore deve evolversi, non arretrare
di Silvia Natoli
17 MAR -
Gentile Direttore,per convenzione si definisce cronico il dolore che persiste o ricorre per più di 12 settimane. Ma il dolore cronico è qualcosa di più. E’ causa o conseguenza di modificazioni del sistema nervoso, per cui il soggetto diventa più sensibile al dolore stesso, e si accompagna a distress emotivo e disabilità funzionale. Per il suo trattamento è necessaria una presa in carico che tenga considerazione del contesto socio-psicologico del paziente, secondo un modello biopsicosociale sancito dall’OMS. È intuibile, dunque, come da un punto di vista pratico la gestione del paziente affetto da dolore sia complessa, e che la sola terapia farmacologica non basti.
I farmaci oppiacei possono essere validi alleati, se inseriti in un piano di cura che preveda un approccio a 360°, e che venga garantita un’attenzione in termini di sicurezza e semplicità per il paziente. È noto, infatti, che non è possibile prevedere a priori quale sarà la dose analgesica efficace di quella specifica molecola, per quel singolo paziente in quel particolare momento; quindi, è necessario titolare il farmaco per ottimizzare l’equilibrio tra efficacia ed effetti collaterali. Inoltre, la terapia con questi farmaci non è sempre lineare. I circuiti neuronali si adattano al farmaco, rendendo necessario aumentare la dose oppure fare uno switch, cambiando il tipo di molecola e resettando il sistema per recuperare analgesia. Questo passaggio rende necessario il supporto medico per cambi terapeutici in corso d’opera. Appare evidente come l’arte di prescrivere un oppiaceo necessiti di un sistema sanitario pronto, un medico reperibile e un paziente a cui debbano essere garantite semplicità terapeutica, accessibilità alle cure e confronto col medico.
In questo scenario, dare la possibilità di effettuare una intercambiabilità del farmaco non a cura del medico o dello specialista - come richiesto da recenti misure di contenimento della spesa - significa creare ostacoli e confusione. Dover cambiare confezione del medicinale, forma, colore, o numero delle compresse, non in accordo con il medico ma con il farmacista, potrebbe creare problemi in termini di sicurezza e di compliance terapeutica. Durante la visita, il medico riconosce le caratteristiche del paziente e del contesto in cui si trova, cerca di intuire quanto sarà in grado di seguire una terapia complessa, di quale supporto necessiti, come sarà in grado di affrontare gli effetti collaterali in caso di irreperibilità del medico. E poi sceglie la terapia più appropriata, secondo l’approccio che gli anglosassoni definiscono “tailored therapy”. Viceversa, se la terapia è complessa il paziente non la assumerà; se è inefficace non la assumerà; se provoca inaspettati effetti collaterali, non la assumerà.
“Drugs don’t work in patients who don’t take them”: così titolava un editoriale del New England Journal of Medicine sull’aderenza terapeutica. Quest’ultima passa attraverso il rapporto di fiducia tra medico e paziente, di cui ci dobbiamo riappropriare e che non possiamo lasciare in balia di un percorso disegnato dalle sole necessità economiche. Tutto questo passa attraverso una comunicazione efficace che dà al tempo un valore prezioso.
Non è in discussione il principio della bioequivalenza, né l’intercambiabilità di una terapia, ma la necessità che il cambio venga fatto dal medico con le dovute istruzioni al paziente. Non sempre il concetto di dolore cronico è sovrapponibile al concetto di dolore malattia. In questi casi sarebbe più corretto parlare di pazienti cronicamente affetti da dolore, il cui paradigma di cura deve spostarsi dalla cura della patologia alla cura del dolore, partendo dal valore prioritario del benessere del paziente, integrato nella società e nel contesto lavorativo. C’è quindi un’importanza sociale nella terapia del dolore che ricerca la riduzione di morbilità, con relativa riduzione dell’impatto dei costi associati. Il nostro contesto italiano è molto indietro rispetto alla cultura di riconoscimento e di gestione del dolore, forse perché la disciplina “terapia del dolore” non è materia di studio nei corsi di laurea.
La consapevolezza della elevata prevalenza di dolore cronico nella popolazione italiana è la base per garantire equità e appropriatezza. Questa consapevolezza deve partire da un livello più alto e riconoscere la cronicità, senza con questo determinare una basso livello di assistenza, ma al contrario, garantendo una presa in carico che permetta un’elevata intensità di cure dove necessario, che riconosca che i percorsi per il paziente affetto da dolore siano coordinati dal terapista del dolore in continuità con la medicina territoriale e in accordo con gli altri specialisti che si occupano di patologie dolorose, come già sancito dalla legge 38/2010. La medicina del dolore non è fatta solo di terapie farmacologiche, ma di diagnosi patogenetiche e terapie mediche e/o chirurgiche erogate in relazione a queste. Non abbiamo molte armi a disposizione, ma quelle che abbiamo, compresi i farmaci oppiacei, devono essere utilizzate al meglio e integrate in un percorso di cura per un paziente che forse non guarirà, ma a cui potremmo ridurre la disabilità.
La sostenibilità del processo passa per rimborsi adeguati e riconoscimento di percorsi terapeutici e terapie complesse e/o innovative. Qualche passo è stato però fatto: il Ministero della Salute ha generato uno specifico codice che identifica la terapia del dolore tra le specialità cliniche e le discipline ospedaliere, ma la maggior parte delle Regioni sono ben distanti dalla sua applicazione, dalla creazione di unità operative integrate con le reti territoriali e l’implementazione di un approccio interdisciplinare.
Silvia NatoliProfessore Associato di Anestesia, Rianimazione, Terapia Intensiva e del Dolore Università di Roma Tor Vergata, UO Terapia del Dolore, IRCCS Maugeri, Pavia, Coordinatore Sezione Dolore Cronico - SIAARTI
17 marzo 2023
© Riproduzione riservata
Altri articoli in Lettere al direttore