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Epidemiologia e la corretta interpretazione dei dati per le migliori decisioni politiche

L’opera di Luigi Pirandello può sollecitare qualche riflessione sull’attualità delle politiche sanitarie e dell’assistenza nel nostro Paese? Gli epidemiologi italiani pensano di sì: il relativismo di fronte alle prove non può essere l’approccio giusto. In altre parole, “così è, se vi pare” non è una risposta accettabile. Se un margine di variabilità nei comportamenti clinici o nelle politiche di sanità pubblica può essere accettabile, tutto dovrebbe essere sempre sottoposto a valutazione e a una verifica attenta di qualità e appropriatezza.

11 SET - “Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno il suo mondo di cose! e come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!” . Il congresso nazionale dell’Associazione italiana di epidemiologia che si terrà a Catania dal 23 al 25 ottobre 2019 ha come filo conduttore l’opera di Luigi Pirandello che ha ispirato il titolo dell’evento (“L’epidemiologia: una, nessuna, centomila. Quale contributo alle decisioni in sanità pubblica?”) e le sessioni che lo compongono.

In particolare, una parte del convegno curata dall’Associazione Alessandro Liberati e dal gruppo di lavoro AIE di farmacoepidemiologia affronta una questione che viene solitamente aggirata: l’interpretazione del dato della ricerca. Di fronte alle stesse evidenze, possono essere prese decisioni diverse senza, talvolta, esplicitare le ragioni delle scelte compiute.

Prendiamo ad esempio il caso della terapia con i nuovi farmaci anticoagulanti orali della fibrillazione atriale non valvolare. Ebbene, nonostante gli studi condotti e una letteratura ormai molto ricca, manca un accordo sui criteri di scelta della strategia terapeutica, come dimostra per esempio la distanza che ancora permane tra le indicazioni contenute nelle linee guida pubblicate sulla rivista Chest (coordinate dalla McMaster University che - vale la pena ricordarlo - è il centro di riferimento internazionale del GRADE Working group) e le raccomandazioni più conservative di bollettini indipendenti sui farmaci come Prescrire o The medical letter.

Altro caso esemplare è quello della vitamina D: nell’ambito stesso delle società scientifiche che hanno formulato raccomandazioni sulla prevenzione dell’osteoporosi, le posizioni sono molto diverse e, mentre per molti clinici e ricercatori indipendenti la carenza è un problema soltanto per una quota minima di popolazione a rischio, seguendo le linee guida più aggressive il rischio di sovratrattamento di una parte importante della popolazione sarebbe molto alto, associandosi ad un ulteriore aumento della spesa farmaceutica.

I dati, dunque, non parlano a tutti nello stesso modo? Evidentemente no e la ragione più nobile che potrebbe giustificare le differenze è “il proprio mondo di cose” che nei Sei personaggi in cerca d’autore Pirandello ritiene ognuno di noi “abbia dentro”. “Mondo di cose” del tutto lecito se fatto di valori o orientamenti culturali ma meno accettabile se costituito da interessi economici, accademici o di natura politica. Questa, però, è solo una parte del problema.

Perché la tensione (quasi) inevitabilmente insita nell’interpretazione del dato possa manifestarsi è necessario che i “numeri” stessi siano accessibili. La disponibilità dei dati della ricerca è un altro dei nodi importanti di questi anni e non siamo vicini dall’averlo sciolto. Ci sono segnali importanti - pensiamo alla determinazione di molte istituzioni a vincolare i finanziamenti alla ricerca alla sua pubblicazione su riviste aperte - ed esperienze innovative - la Regione Lazio ha inaugurato nel febbraio di quest’anno il sito Open salute Lazio dove chiunque può trovare dati aggiornati sullo stato di salute della popolazione basati sui sistemi informativi regionali e sui registri, quando disponibili. D’altra parte continuiamo a leggere di manipolazioni di dati trasmessi alle agenzie regolatorie da parte di industrie o di ritiro di articoli già pubblicati (e citati) da parte di ricercatori di primaria importanza.

Quanta variabilità nelle strategie cliniche le istituzioni e i decisori dovrebbero essere pronti a considerare accettabile? Come ricondurre ad una sintesi le raccomandazioni di società scientifiche e centri di ricerca? Come distinguere tra i valori di cui sono portatori i professionisti sanitari e gli interessi diversi da loro eventualmente illecitamente perseguiti? Quali strategie seguire per incoraggiare la condivisione dei dati della ricerca? Come favorire la loro corretta interpretazione e traduzione in politiche sanitarie di cui i cittadini possano beneficiare? Come rendere più trasparente il percorso che va dalla produzione ed interpretazione delle evidenze alle decisioni?

È sempre rischioso dare risposte semplici a domande complesse. Anche considerato che molti di questi problemi sono noti da tempo, serve un impegno da parte degli attori coinvolti – professionisti sanitari, decisori, istituzioni, ordini professionali e società scientifiche –ad avviare un percorso che riconosca la necessità di uno sguardo comprensivo su un insieme di problemi tra loro collegati. Le soluzioni, dunque, non possono che arrivare da interventi mirati a sciogliere i singoli nodi. Migliorare la capacità dei professionisti e dei decisori sanitari di selezionare e valutare le prove dovrebbe andare di pari passo con un’attività di contrasto dei bias cognitivi e dei comportamenti abitudinari che ostacolano il cambiamento. Premiare l’integrità e favorire la condivisione dei dati della ricerca condotta in modo rigoroso è altrettanto importante. Coinvolgere i cittadini, migliorandone consapevolezza sulla salute e capacità di interpretare la ricerca e la qualità dell’assistenza è un’altra sfida importante.

Prendere per buona la logica del “così è, se vi pare” accettando che ciascuno possa dare una propria interpretazione delle evidenze finisce con l’essere collegato con un sovrautilizzo di procedure diagnostiche e terapeutiche e, in generale, con un servizio sanitario che forse potrà garantire o promettere un maggior numero di prestazioni ma non una maggiore qualità e appropriatezza.

Marina Davoli
Dipartimento di epidemiologia del servizio sanitario della Regione Lazio, ASL Roma 1

Luca De Fiore
Past president, Associazione Alessandro Liberati


11 settembre 2019
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