Sebbene il numero di medici e ricercatori donne sia aumentato costantemente negli ultimi decenni, le disuguaglianze di genere persistono e sono dovute, almeno in parte, a pregiudizi impliciti della sfera medico-sanitaria e finanche dei pazienti. Pregiudizi che influenzano negativamente le donne nella loro carriera e contribuiscono a un avanzamento più lento, a valutazioni meno favorevoli, a una sottorappresentazione nelle posizioni di leadership, a un minor numero di inviti a conferenze e convegni, a stipendi più bassi, ma che soprattutto portano a una disequità nella risposta ai bisogni di salute, a un trattamento medico orizzontale che spesso non tiene conto delle diversità di genere, del fatto che uomini e donne si ammalano in maniera differente, presentano una differente progressione di malattia e rispondono diversamente alle terapie.
Certamente gli sforzi per un cambiamento direzionale ci sono, ma si è ancora lontani da una radicale trasformazione culturale che dovrebbe portare all’equità di genere sia nel campo della diagnosi e della terapia che della ricerca.
Il Dipartimento di Epidemiologia (DEP) del SSR del Lazio – ASL Roma 1 Lazio riconosce da sempre l’importanza di documentare e monitorare queste differenze nelle varie attività scientifiche e istituzionali, e ha infatti pubblicato nel maggio scorso il primo Rapporto epidemiologico sulla relazione tra Salute e Genere nella Regione Lazio, che raccoglie i principali dati epidemiologici prodotti dal DEP su diversi aspetti di salute che differiscono tra femmine e maschi.
“La nostra esperienza – sostiene Belleudi - ci porta a dire che sebbene i rischi cambino a seconda del genere, raramente questo è considerato come determinante della scelta di una terapia”.
Un’equità di trattamento che nasconde in realtà un discriminante per le donne. Sebbene siamo nell’era della medicina di precisione, di una medicina personalizzata, “non si tiene neanche conto dei rischi di base che caratterizzano queste due popolazioni”.
Dello stesso avviso Filomena Fortinguerra, esperta che lavora per l'ufficio monitoraggio della spesa farmaceutica e rapporti con le regioni di AIFA, la quale afferma come ancora oggi purtroppo si sia lontani dall’applicazione di linee guida fondamentali, soprattutto per le donne, come nel caso dell’utilizzo dell’acido folico per la prevenzione dei difetti del tubo neurale, la cui assunzione è raccomandata da almeno un mese prima del concepimento, mentre purtroppo “i dati del rapporto OSMED ci dicono che non avviene sempre”.
E si potrebbero fare tantissimi altri esempi in altre categorie terapeutiche. Come l’oncologia, di cui parla Pasquale Lombardi - Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS, Università Cattolica Sacro Cuore di Roma -, che ha scelto di sottoporre una survey ai suoi colleghi da cui emerge una percentuale considerevole secondo cui il sesso non è considerato un importante determinante di risposta a certi tipi di trattamenti. Purtroppo invece, nei trattamenti oncologici (e non solo), non è così: una recente metanalisi, ad esempio, ci dice che le donne rispondono peggio alle terapie, nonostante si ammalino meno di tumore.
Questo del resto lo sappiamo da anni, ma i dati sul perché sono ben più recenti, poiché le donne sono incluse meno negli studi clinici. “Analizzando anche gli studi recentissimi – afferma Pasquali -, in tutte le patologie le donne sono meno arruolate rispetto agli uomini, con dei picchi per alcuni casi come l’HCC, in cui era incluso l’87% del sesso maschile”. Chiaramente sono dati che vanno rapportati alla popolazione e all’incidenza delle malattie, ma fanno comunque riflettere, perché sono la spia di qualcosa che non funziona correttamente.
È quindi piuttosto ovvio che andrebbe rivoluzionato il sistema da questo punto di vista. Come? Ad esempio “introducendo davvero la medicina di genere già all’interno del corso di laurea”, - sottolinea ancora Pasquali -, facendo capire le diversità tra uomini e donne, che si ammalano in modo diverso e rispondono differentemente alla malattia e ai relativi trattamenti.
In parte qualcosa sta già cambiando, e finalmente di questo tema si parla molto, “ma è il momento di occuparsene in maniera concreta”, afferma Rita Banzi, l’autrice del libro, nonché – farmacologa clinica, responsabile del Centro Politiche Regolatorie in Sanità, Istituto Mario Negri. E inoltre, sempre secondo Banzi, c’è anche “una questione di allenamento mentale, nel percepire la necessità di studiare determinati aspetti. È infatti dimostrato che se negli studi ci sono più rappresentanti femminili, o se il P.I. è femmina, vengono arruolate più donne nella popolazione in studio”.
Quello che possiamo fare, come ribadisce Belleudi, è “continuare a generare evidenze di questi divari, che possano creare un contrasto con i luoghi comuni”, o ancora – secondo Fortinguerra - “aumentare la consapevolezza che c’è un’attenzione da parte dell’Agenzia regolatoria sul tema, al fine di incrementare anche l’accuratezza dei medici nell’effettuare una prescrizione”.
Un’ulteriore speranza infine è che anche incontri di questo tipo aiutino a riflettere e contribuiscano ad accantonare l’impostazione androcentrica della medicina e della sanità, riconoscendo sempre di più l'importanza di garantire la conoscenza e l’applicazione di una visione di genere nella ricerca, nella prevenzione, nella diagnosi e nella cura.
Tiziano Costantini
Dipartimento di Epidemiologia SSR Lazio