Coronavirus. La rete oncologica riparte ma uno specialista su tre non ha ricevuto informazioni adeguate per gestire l’emergenza
Il 93% dei centri ocologici italiani è attivo ma il 35% degli oncologi ha ricevuto poche indicazioni sui rischi Covid e il 55% lamenta che si è fatta poca formazione. Questi i principali risultati di un sondaggio nei Centri per la cura dei tumori che ha coinvolto 400 oncologi italiani. La ricerca è stata promossa dall’Università Politecnica delle Marche e dalla Clinica Oncologica Ospedali Riuniti di Ancona. Berardi: “Vanno differenziati i percorsi di cura per i pazienti contagiati e separati i gruppi di lavoro. Tutti gli operatori siano sottoposti ai tamponi”
07 APR - L’emergenza coronavirus ha rappresentato un vero e proprio tsunami per le oncologie del nostro Paese. Ben il 93,5% dei centri è stato costretto a ripensare l’attività clinica. L’organizzazione complessiva ha retto l’urto della pandemia, visto che per il 63,7% degli oncologi, gli ospedali hanno garantito la continuità terapeutica (ad esempio con canali comunicativi alternativi come videochiamate) e, per il 58%, i centri hanno saputo gestire le risorse disponibili in maniera efficiente.
Preoccupa, però, che il 35% degli oncologi non sia stato informato o abbia ricevuto poche indicazioni sulle procedure e sulle raccomandazioni da seguire per affrontare l’emergenza. Anche la formazione su questi aspetti è stata assente o scarsa (per il 55% degli specialisti). Con una chiara conseguenza: il 56% degli oncologi ritiene che il percorso terapeutico dei pazienti, in questa fase, sia qualitativamente inferiore rispetto al periodo precedente alla pandemia.
Sono i principali risultati del
sondaggio condotto su circa 400 oncologi in tutte le Regioni italiane, promosso dall’Università Politecnica delle Marche e dagli Ospedali Riuniti di Ancona.
“La nostra specialità è stata profondamente segnata dall’emergenza Covid-19, anche perché i pazienti colpiti da tumore sono fragili e rischiano di subire più danni in caso di infezione. Pertanto continuiamo a seguire i malati oncologici positivi che sono in cura nei reparti Covid” spiega
Rossana Berardi, Ordinario di Oncologia Medica presso l’Università Politecnica delle Marche e Direttore della Clinica Oncologica Ospedali Riuniti di Ancona.
Ma ci sono aree di miglioramento: “Innanzitutto, vanno differenziati i percorsi di cura tra pazienti contagiati e non infetti – aggiunge – inoltre, a un mese dall’inizio della pandemia, cambiano le prospettive e ogni paziente va considerato positivo, fino a prova contraria. Per questo tutti gli operatori devono essere dotati di protezioni”.
Dal sondaggio emergono forti lacune sul fronte della tutela dei sanitari. Il 21% afferma di non aver ricevuto dispositivi di protezione adeguati e tempestivi rispetto alle necessità cliniche e per il 55% la fornitura di questi device è stata solo parziale.
“Non vi sono ancora linee guida che ci indichino quali trattamenti possano essere considerati differibili e come posticipare le cure, senza porre i pazienti a rischio di non ricevere un’adeguata terapia anticancro – afferma Berardi – l’assenza di raccomandazioni specifiche in questo senso si riflette anche nello stato d’animo degli specialisti: il 60% afferma di essersi sentito preoccupato al momento di rinviare un trattamento oncologico o un esame strumentale, anche se il 90% ritiene che il paziente abbia ben compreso le motivazioni della scelta. La condivisione delle decisioni è fondamentale, soprattutto in questa fase. Un recente articolo pubblicato su
Nature Reviews Clinical Oncology dà alcuni suggerimenti: nelle patologie neoplastiche evolutive non si possono procrastinare i trattamenti. Scelta che va, invece, adottata in casi di tumori stabili o in caso di terapie con finalità palliative che non dimostrano efficacia”.
Così come i percorsi di cura, vanno separati anche i team di lavoro, sostiene Berardi: “Oggi però non è sempre così, perché spesso i professionisti sono impegnati in equipe diverse per sopperire alla mancanza di personale. Se un operatore è contagiato dal virus, l’intero gruppo diventa a rischio di infezione. Inoltre, vanno sottoposti a tampone tutti gli operatori sanitari, inclusi coloro che non presentano sintomi”.
Dal sondaggio emergono poi forti criticità sullo screening: il 28,9% degli oncologi non è stato sottoposto a tampone, il 21,1% lo ha eseguito solo se sintomatico, il 34,3% se asintomatico in seguito a contatto con casi noti e solo il 15,7% almeno una volta indipendentemente da sintomi o contatti. L’82% è preoccupato di essere a maggior rischio di contagio rispetto alla popolazione generale e il 93% teme di poter trasmettere il virus ai familiari. Gravi anche le conseguenze psicologiche determinate da una condizione lavorativa ad alta probabilità di esposizione al contagio: per il 62% degli specialisti la qualità del sonno è peggiorata (il 58% dorme meno), per il 49% la capacità di concentrazione è inferiore e per un oncologo su tre (35%) il livello di preoccupazione e stress si ripercuote sulla qualità dell’assistenza ai pazienti.
“I test sierologici ci permetteranno di capire se un operatore sanitario è entrato in contatto con il virus e se ha sviluppato anticorpi – conclude Berardi – e possono rappresentare un’arma in più per uno screening epidemiologico. Ringrazio
Gian Luca Gregori, Rettore dell’Università Politecnica delle Marche, e
Michele Caporossi, direttore generale degli Ospedali Riuniti di Ancona, per il supporto nella realizzazione di questa indagine che offre una fotografia dello stato attuale dell’oncologia nella lotta al coronavirus. L’equipe che dirigo ha offerto un contributo importante, in particolare
Zelmira Ballatore, Filippo Merloni, Nicoletta Ranallo e
Lucia Bastianelli”.
07 aprile 2020
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