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Orario di lavoro. Palermo (Anaao): “Ecco perché le nuove richieste dell’Aran sono illegittime”

di Carlo Palermo

La proposta presentata dall’Aran al tavolo di contrattazione del comparto sanità di limitare ad 11 ore il riposo successivo ad un prolungamento degli orari di lavoro oltre le 13 ore su un periodo di 24, appare illegittima ed espone l’eventuale accordo ad un intervento correttivo della Corte di giustizia europea

30 GEN - La proposta avanzata recentemente dall’Aran al tavolo di contrattazione per la stipula del CCNL 2016/2018 del comparto sanità offre lo spunto per alcune considerazioni sul tema dell’organizzazione dell’orario di lavoro. Il tema ovviamente ha valenza generale ed interessa anche l’Area della dirigenza medica, sanitaria e veterinaria.
La proposta introduce alcune deroghe al D.Lgs 66/2003, che recepisce le direttive europee in materia di orario di lavoro e riposi, relativamente agli articoli 4 (Durata massima dell’orario di lavoro) e 7 (Riposo giornaliero).
 
Per quanto riguarda le previsioni dell’articolo 4, il periodo di riferimento per il calcolo della durata media dell’orario di lavoro settimanale è portato ordinariamente da 4 a 6 mesi. A fronte di ragioni definite “obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro” si potrà arrivare anche a 12 mesi. Si fa in particolare riferimento, in questo caso, a carenze del personale, necessità di garantire la continuità assistenziale e al rispetto del vincolo economico per la spesa del personale.
 
Chi conosce le conseguenze del de-finanziamento che colpisce oramai da molti anni il SSN, sa che le condizioni per prolungare il periodo di riferimento a 12 mesi sono presenti in quasi tutte le aziende sanitarie del nostro paese. In definitiva, viene richiesto di portare la flessibilizzazione dell’organizzazione del lavoro al limite estremo consentito dalla normativa europea.
 
Questo significa che i lavoratori potranno essere chiamati per periodi prolungati, che potrebbero anche essere di numerosi mesi, a prestare la loro opera con orari ben superiori al limite settimanale contrattuale, in particolare durante i periodi di ferie o di malattia del personale. E’ evidente che la parte datoriale attraverso la flessibilizzazione estrema dell’organizzazione dei turni di lavoro intende rispondere al rilevante deficit di personale infermieristico e di operatori socio-sanitari presente nelle strutture ospedaliere e territoriali del SSN, rimandando a data futura e incerta la copertura delle dotazioni organiche.
 
Per quanto riguarda l’articolo 7 del D.lgs 66/2003, vengono proposte deroghe alla durata minima del riposo (11 ore) in caso di eventi eccezionali e non prevedibili ovvero assenze improvvise del personale. Viene disposto, inoltre, che al termine delle attività che determinino un prolungamento dell’orario di lavoro con riduzione delle undici ore di riposo “devono comunque essere fruiti periodi di riposo compensativo immediatamente successivi e consecutivi pari a undici ore”.
 
La direttiva europea sull’orario di lavoro (88/2003) è un testo molto complesso e articolato perché cerca di offrire un determinato grado di flessibilità nell’organizzazione del lavoro garantendo nel contempo un buon livello di protezione minima del lavoratore. Tale flessibilità è sancita nelle deroghe previste dalla direttiva. La maggior parte dei diritti sviluppati dalla direttiva è anche tutelata dall’articolo 31 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. L’articolo 52 della Carta così recita: ”Eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previsti dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”.
 
Questi concetti sono stati ribaditi da sentenze della Corte di Giustizia Europea (CGCE): “In quanto eccezioni al regime dell’Unione in materia di organizzazione dell’orario di lavoro, tali deroghe devono essere interpretate in modo che la loro portata sia limitata a quanto strettamente necessario alla tutela degli interessi che esse permettono di proteggere”. Inoltre, l’attuazione delle deroghe deve essere “subordinata a condizioni rigide che assicurano una efficace protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori”.
 
C’è da chiedersi, a questo punto, se le deroghe proposte al tavolo contrattuale siano conformi a questo poderoso corpo giuridico costituito dalla Carta dei diritti UE, dalle Direttive CE e dalle sentenze della CGCE, oltre che ai limiti già presenti nella legislazione italiana.
 
Per quanto riguarda l’articolo 4 del D.Lgs 66/2003 relativamente al periodo di riferimento per il calcolo della durata media dell’orario di lavoro settimanale, il comma 4 dello stesso demanda ai contratti collettivi la facoltà di elevare il periodo a 6 mesi ovvero a 12 mesi. L’articolo 17, comma 2, prevede altresì, in mancanza di accordi collettivi, la possibilità di intervenire per decreto da parte del Ministero della Funzione Pubblica, di concerto con il Ministero del Lavoro, sentite le parti sociali, con una deroga limitata, però, ai 6 mesi. In sintesi, senza un esplicito accordo collettivo è impossibile portare il limite a 12 mesi. La Regione Basilicata che aveva provato a introdurre tale limite con un intervento legislativo autonomo è stata bloccata dalla Commissione Europea.
 
La Legge 161/2014, articolo 14 comma 3, dispone che siano i contratti collettivi nazionali di lavoro del comparto sanità a disciplinare le deroghe alle disposizioni in materia di riposo giornaliero (articolo 7 del D.Lgs 66/2003) del personale del SSN.
 
L’articolo 17 del D.Lgs 66/2003 prevede in modo specifico la possibilità di derogare l’articolo 7 in caso di attività caratterizzate dalla necessità di assicurare la continuità del servizio o della produzione, in particolare quando si tratta di “servizi relativi all’accettazione, al trattamento o alle cure prestate da ospedali o da stabilimenti analoghi, comprese le attività dei medici in formazione, da case di riposo e da carceri”. Al comma 4 dell’articolo 17 si prevede che le deroghe possono essere ammesse soltanto a condizione che ai prestatori di lavoro siano accordati periodi equivalenti di riposo o, in casi eccezionali in cui ciò non sia possibile per motivi oggettivi, a condizione che ai lavoratori interessati sia accordata una protezione adeguata.
 
Esistono, in pratica, due livelli di condizioni. Nella maggior parte dei casi ai lavoratori interessati devono essere concessi “periodi equivalenti di riposo compensativo”. In casi eccezionali in cui tali periodi di riposo non possono essere concessi per ragioni oggettive, i lavoratori interessati dovrebbero in ogni caso godere di “protezioni adeguate”.
 
Ogni deroga deve essere compensata con un periodo equivalente di riposo compensativo. Pertanto, il lavoratore che non ha potuto godere della totalità o di una parte del periodo di riposo deve ricevere le unità di tempo mancanti come compensazione. Alla luce della giurisprudenza della CGCE i periodi equivalenti di riposo compensativo “devono caratterizzarsi per il fatto che il lavoratore durante tali periodi non è soggetto nei confronti del suo datore di lavoro ad alcun obbligo che possa impedire di dedicarsi liberamente e senza interruzioni ai suoi propri interessi al fine di neutralizzare gli effetti del lavoro sulla sicurezza e la salute dell’interessato”. E’ evidente che in tali periodi il lavoratore non può essere reperibile poiché egli durante il riposo compensativo deve essere in grado di dedicarsi ai suoi interessi senza interruzioni.
 
Per quanto riguarda il momento in cui i periodi equivalenti di riposo compensativo devono essere concessi, in relazione al riposo giornaliero, la CGCE ha chiarito che essi devono essere immediatamente successivi all’orario di lavoro che sono intesi a compensare. Infatti “per poter garantire una efficace tutela della sicurezza e della salute del lavoratore deve essere prevista, di regola, una alternanza di un periodo di lavoro e di un periodo di riposo”. In altre parole, un accordo collettivo può anche prevedere, in via strettamente provvisoria, la possibilità di posticipare la totalità o una parte del periodo minimo di riposo giornaliero, ma solo a condizione che il lavoratore riceva tutte le ore di riposo cui ha diritto nel periodo immediatamente successivo.
 
Alla luce delle sentenze descritte, la richiesta presentata dall’Aran di limitare ad 11 ore il riposo successivo ad un prolungamento degli orari di lavoro oltre le 13 ore su un periodo di 24 appare illegittima ed espone l’eventuale accordo ad un intervento correttivo della CGCE.
 
E’ auspicabile che le OO.SS. del comparto sanità non sottoscrivano le richieste presentate dall’Aran per il rischio di deteriorare ulteriormente le già precarie condizioni di lavoro negli ospedali e nei servizi territoriali e per la possibilità di essere sbugiardate e delegittimate da ricorsi, anche di singoli operatori, presso la CGCE su argomenti già definiti in sentenze precedenti.
 
Carlo Palermo
Vice Segretario Nazionale Vicario Anaao Assomed

30 gennaio 2018
© Riproduzione riservata

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