Il Tribunale di Bari riconosce il “tempo tuta” (per indossare la divisa) nella sanità e condanna l’Asl a risarcire 13 operatori
Il Tribunale di Bari riconosce per la prima volta il cosiddetto "tempo tuta" anche nella sanità e condanna l'Asl del capoluogo pugliese - che ricorrerà in appello - a risarcire (165mila euro) tredici operatori sociosanitari per il tempo necessario a indossare e togliere la divisa. In passato per altre attività anche la Cassazione si era espressa analogamente nel merito.
26 GIU - La divisa è obbligatoria? Ci vuole tempo per indossarla a inizio turno e questo tempo va pagato secondo il Tribunale di Bari (sentenza n 2513/2017) che ha condannato l’Asl del capoluogo pugliese - che ha annunciato di voler ricorrere in appello - a pagare quello che ha definito il “tempo tuta” che secondo i giudici rientra nell’orario di lavoro.
Così, l’Asl ha dovuto sborsare 165mila euro di arretrati a 13 operatori sociosanitari: il corrispettivo di 20 minuti di lavoro dieci minuti prima e altri dieci dopo il turno, per ogni giorno di servizio effettivo dal 1995 a oggi, oltre al pagamento delle spese processuali.
Una “causa pilota” secondo il sindacato Usppi (Unione Sindacati Professionisti Pubblico Privato Impiego) che ha condotto la battaglia per il riconoscimento del risarcimento e che potrebbe rappresentare la scintilla per analoghe situazioni anche di altre categorie. “Questo tempo non era mai stato retribuito dall’amministrazione sanitaria”, spiegano in una nota il segretario nazionale Usppi,
Nicola Brescia, e il segretario provinciale,
Gianfranco Virgilio.
Dello stesso avviso in passato si è espressa più volte la Cassazione (l’ultima sentenza è la n. 2965/2017) ritenendo che il tempo che serve per indossare la divisa aziendale deve essere retribuito se la relativa prestazione, anche se accessoria e strumentale rispetto a quella lavorativa va eseguita nell’ambito della disciplina d’impresa e sia esigibile dal datore di lavoro. E questo facendo riferimento alla definizione legislativa di “orario di lavoro”, ovvero “qualsiasi periodo in cui il lavoratore resta a disposizione del proprio datore di lavoro, nell’esercizio delle sue attività lavorative o delle sue funzioni”.
La Cassazione si era pronunciata nella sua ultima sentenza non sulla sanità, ma sul ricorso di alcuni dipendenti di un’azienda produttrice di gelati che chiedevano il riconoscimento della retribuzione per il tempo impiegato per indossare e togliere gli abiti imposti dal datore di lavoro (tute, copricapi, ecc.).
Accogliendo in parte i motivi proposti dai lavoratori, la Corte ha stabilito che il tempo di vestizione necessario per indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro, e allo stesso quindi deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva, “se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro; l’eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, o dalla specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento”.
Nonostante questo però, nel 2016 a un’infermiera, fu negato il pagamento del “tempo tuta”, perché avveniva all’interno dell’orario di timbratura e pertanto doveva ritenersi “compreso nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore”.
"Da questo momento – sottolinea l’Usppi - molti altri dipendenti vedranno riconosciuto questo diritto comprensivo del risarcimento retroattivo per gli emolumenti non versati dall'azienda sanitaria, rispetto all'orario effettivamente realizzato".
26 giugno 2017
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