Intervista a Troise (Anaao): “L'ospedale rimarrà l'unico ammortizzatore sociale del Paese"
Nel giorno di lancio della campagna di raccolta firme contro la manovra promossa dai medici dirigenti e convenzionati, dai veterinari e dai dirigenti del Ssn, il segretario nazionale dell'Anaao Assomed, Costantino Troise, spiega a Quotidiano Sanità le ragioni che nei prossimi mesi spingeranno le organizzazioni di categoria a promuovere numerose azioni di protesta. "L'ospedale dovrà sempre più di tamponare l'assenza di servizi sul territorio per le fasce di popolazione più fragile". Contro il pubblico impiego "clima da leggi speciali".
02 SET -
Intervista a Costantino Troise, segretario nazionale Anaao Assomed
Dottor Troise, qual è il significato dell’iniziativa dei sindacati del Ssn?
È un appello al presidente della Repubblica, al Governo e al Parlamento a sostegno del quale chiediamo a medici, dirigenti del Ssn e veterinari di aderire con la propria firma. È un appello che richiama a un forte impegno per dare risposte alle condizioni di insostenibilità del Ssn e all’accanimento che si sta perpetuando contro i medici e i dipendenti del pubblico impiego. È una delle iniziative di una campagna di lungo respiro che avrà un primo momento importante nell’incontro che abbiamo convocato con tutti i sindacati del mondo medico dipendente, convenzionato e privato e in programma il prossimo 8 settembre a Roma.
Come già avvenuto in occasione della manovra dello scorso luglio.
Sì. Ma oggi la situazione è ancora più grave e siamo pronti a mettere in campo una lunga serie di iniziative per ottenere risposte concrete.
Qual è la sua opinione sul clima politico e sulle misure contenute nella nuova manovra?
Mi sembra evidente che ci sia molta confusione, certamente a livello politico ma anche sui contenuti dei diversi interventi messi in campo di volta in volta. Quello che dal nostro punto di vista appare però certo è che assistiamo ad un accanimento nei confronti del pubblico impiego, compresi i medici, i dirigenti sanitari e tutti i dipendenti del Ssn, fino a vessazioni difficilmente comprensibili e che vanno al di là della necessità di risanare i conti.
Già l’idea di eliminare i riscatti di laurea, specializzazione e servizio militare dal computo dell’età pensionabile era una forzatura meschina ed estemporanea, che colpiva soprattutto i medici, che spendono 10 anni della loro vita in studi per l’acquisizione di competenze professionali fondamentali per la salute dei cittadini. Questo rischio è stato sventato, ma restano in piedi altre annose questioni. Il famoso contributo di solidarietà rimane in vigore solo per i dipendenti pubblici. È curioso parlare di solidarietà quando si va a tassare un reddito in base soltanto alla natura giuridica del tipo di lavoro che l’ha prodotto, mentre lo stesso reddito, o anche maggiore, è esente da contributi se proveniente da lavoro autonomo.
Rimangono inoltre sul tappeto altre questioni, come il congelamento della liquidazione per due anni, dimenticando che il Tfr è un salario differito e in larga parte autofinanziato con i soldi dei cittadini stessi, non certo dello Stato. E ancora, le minacce sulla tredicesima, la mobilità selvaggia, la precarietà degli incarichi professionali.
Insomma, mi sembra che in questa grande confusione l’unica cosa fissa sia il fatto che a pagare la crisi è il lavoro pubblico dipendente. Contro il quale si continuano a promulgare leggi speciali che, non voglio abusare del termine, ricordano un po’ le leggi razziali nelle quali qualcuno viene punito non per quello che fa ma per quello che è.
A questo si sommano i tagli agli enti locali che renderanno molto incerte le capacità del Ssn di rispondere ai bisogni di salute della popolazione. È il Ssn che viene messo pesantemente a rischio.
Che ne sarà del Ssn?
È indubbio che il taglio agli enti locali si tradurrà in un taglio ai servizi, che sono in larga parte sociali e sanitari: l’assistenza domiciliare, l’assistenza ai non autosufficienti, le forme di cooperazione di assistenza socio-sanitaria…. In questo quadro l’unico ammortizzatore sociale che rimarrà in piedi sarà l’ospedale, nel quale sarà sempre più difficile entrare ma dal quale sarà anche più difficile uscire, in assenza di alternative assistenziali sul territorio. L’ospedale diventerà un forte contenitore che di sanitario e di specialistico avrà poco, perché dovrà rispondere alla domanda sociale che rimarrà priva di altre risposte.
Con una disponibilità di posti letto che continua a ridursi…
Fatta eccezione dell’Inghilterra, non esiste un Paese in tutta Europa che abbia un numero di posti letto basso come l’Italia. È chiaro che questa riduzione, mentre la domanda cresce per via dell’invecchiamento della popolazione, l’aumento delle cronicità e delle polipatologie, finisce per creare un imbuto, con tutte le note difficoltà di accesso agli ospedali e di intasamento dei Pronto soccorsi.
La riforma del sistema di emergenza-urgenza a cui i sindacati medici stavano lavorando con il ministro non dovrebbe intervenire a risanare la situazione dei Pronto Soccorsi?
Risolverà solo una parte del problema, che è quella dei codici bianchi e verdi. Ma la criticità più grande dei Pronto soccorso oggi è la mancanza si posti letto che rende difficoltoso il ricovero in reparto, trasformando il Pronto soccorso da luogo dedicato all’emergenza in un vero e proprio reparto in cui i pazienti sostano giorni e giorni. Quello di spostare i codici verdi e bianchi sul territorio è un buon intervento, ma non è altro che un palliativo rispetto ai veri problemi del Pronto Soccorso. Così come non risolve il problema del sotto organico, con la riduzione progressiva delle professionalità che devono assistere più pazienti e in condizioni più gravi.
È dunque la fine di tutti i progetti di integrazione ospedale-territorio? Così come di altre riforme su cui si lavora da tempo?
Sarebbe la fine di tutto se su questi temi fosse mai esistito un progetto serio. La verità è che sono 30 anni che si parla di integrazione ospedale-territorio e mi sembra che i passi avanti siano stati finora insignificanti, così come è assurdo pensare di contrabbandare la riforma della sanità con quello che passa sotto il nome di Governo clinico, cioè il ddl in discussione alla Camera. Da quel testo non viene alcuna salvezza, anzi, probabilmente porterebbe dei peggioramenti, perché omette e sottodimensiona i reali problemi e non è in grado di prospettare soluzioni adeguate.
Ho l’impressione che in questa necessità di far quadrare i conti si stiano perdendo di vista i valori più importanti, sacrificando il tessuto sociale, istituti civili fondamentali – penso alla sanità ma anche all’istruzione – e si stia sacrificando il valore di un’attività professionale, quella del medico, che viene svolta al servizio dello Stato. Rischiamo di ritrovarci non solo più poveri, ma anche, diciamo, imbarbariti.
Cosa pensa della riforma degli Ordini professionali, prevista anche nella manovra di agosto nel capitolo sulla liberalizzazione delle professioni?
Che gli Ordini vadano riformati è fuori dubbio. La legge costitutiva ha compiuto 100 anni, va sicuramente ripensata l’architettura organizzativa, i meccanismi elettorali e il ruolo degli Ordini nella società civile. Quanto alle liberalizzazioni, la professione medica è già liberalizzata. Nella sanità bisognerebbe forse definire meglio alcune regole, ma non mi sembra un settore in cui vi sia bisogno di una spinta alla libera concorrenza.
In questo clima di incertezza e crisi, pensa che sarà possibile intervenire sulla questione della responsabilità civile e penale del medico?
Se non si interviene presto con una riforma strutturale, questa sarà l’ennesima mina, anche per la sostenibilità del sistema.
Intervenire in che modo?
Ci sono tre aspetti, in particolare. Anzitutto occorre rendere obbligatoria l’assicurazione da parte delle aziende sulla responsabilità professionale del medico. Questo obbligo non ha oggi natura giuridica, ma solo contrattuale. Il secondo aspetto è che occorre passare da un sistema di risarcimento a un sistema di indennizzo, come hanno già fatto molti Paesi europei, in modo che, come già avviene per i danni da trasfusione ed emoderivati, si avvii il procedimento di indennizzo al paziente indipendentemente dall’individuazione di un colpevole. Non credo, invece, che in Italia si arriverà mai a una depenalizzazione dell’atto medico, ma è necessario arrivare a un nuovo inquadramento dell’atto medico, considerando che la sanità non è una scienza a rischio zero e che l’atto medico mira al bene del paziente, non certo a danneggiarlo. Del resto, anche pensare che l’evoluzione tecnologica possa azzerare il rischio clinico, è una pura illusione.
Ultimo aspetto, sarà senz’altro necessario lavorare a un patto tra cittadini e professionisti per ricostruire l’alleanza terapeutica sulla base della reciproca fiducia, là dove oggi vediamo invece crescere la reciproca diffidenza.
Parlando di responsabilità, qual è il futuro del rapporto tra i medici e le altre professioni sanitarie?
Non c’è dubbio che in Italia molte attività siano eccessivamente medicalizzate, frutto dell’azione di una pletora medica del passato. L’Anaao non è contraria a un protagonismo di quelle che una volta erano professioni parasanitarie e che oggi sono professioni sanitarie a tutti gli effetti. Ma a tre condizioni. Anzitutto che l’attribuzione dei compiti sia accompagnata anche da coerenti profili di responsabilità: chi fa è responsabile di quel che fa. Oggi c’è molta ambiguità su questo aspetto.
Il secondo elemento è la trasparenza di chi fa cosa. I cittadini devono sapere con chiarezza da chi riceveranno le prestazioni.
Infine, deve essere dimostrata l’efficacia di quelle prestazioni e il loro effettivo beneficio economico all’interno del quadro generale.
In ogni caso, nessuno potrà mai soppiantare il medico nell’atto di diagnosi e prescrizione delle cure, su cui il medico ha una duplice funzione di garanzia di qualità, quella nei confronti dei cittadini e quella nei confronti dello Stato. Ma i medici dovranno sicuramente abbandonare qualche competenza, dedicandosi alle prestazioni a più alta complessità.
Un'ultima domanda sui giovani medici. Cosa ne pensa della riduzione di un anno della durata delle scuole di specializzazione?
Speriamo che questa riforma arrivi a presto a compimento. Mi sembra infatti una riforma correttissima, che permetterà di avere una disponibilità dei medici in formazione nelle attività ordinarie delle aziende sanitarie. Il problema del percorso formativo in Medicina del nostro Paese è che dura undici anni, ma quello che consegna al sistema è un medico grezzo, che inizia il suo reale percorso di carriera non prima dei 30 anni. Anticipare il percorso ha benefici assistenziali, ma anche economici e previdenziali per i medici e per l’intero sistema.
L.C.
02 settembre 2011
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