Nascite. Garantire diritti e dignità delle donne. C’è ancora molto da fare ma una legge non serve
di Sandra Morano
Non è con espedienti legislativi dell’ultima ora, come quello del ddl Zaccagnini, che si recupera un gap di decenni. In Italia non siamo infatti ancora riusciti a modificare un modello ospedaliero di cure alla nascita oramai superato, inefficace e costoso. Ma servirebbe anche un atteggiamento più confidente da parte delle donne verso se stesse e più critico nei confronti del mercato delle nascite
28 APR - Un fervente dibattito sta animando i social network a seguito della presentazione del Ddl Zaccagnini, che richiama l’attenzione su diritti umani e dignità delle donne che partoriscono negli ospedali italiani. Mentre, quasi contemporaneamente, riempiono la cronaca dei quotidiani gli episodi verificatisi in un ospedale della Calabria, arrivati a fornire una aggiornata esemplificazione.
Le donne sono oggetto dovunque di comportamenti riprovevoli, a volte criminosi, da almeno due secoli, cioè da quando l’aiuto alla nascita è diventato una mezzadria tra due professioni in Ostetricia. Nel secolo XX le battaglie per i diritti e la libertà femminili hanno portato molte donne alla scelta di una professione che permettesse loro di stare dalla stessa parte per riappropriarsi delle competenze procreative.
Dagli anni 70-80 in poi è iniziato, prima in UK e poi anche da noi, con l’appoggio di altre discipline, un vasto movimento per rendere più “umano” il parto in ospedale, e si sono diffuse anche da noi esperienze volte a rompere gli schemi della sanitarizzazione della nascita. Si guardava ai primi, pochi medici/chirurghi/ginecologi che avevano indicato e aperto la via: il parto senza violenza di Leboyer, la Maternità di Pitivier di Odent, le case di maternità in Europa, e poi le prime “rivoluzioni” nelle sale parto nostrane (che altro non erano che l’abbandono di pratiche inutili quando non dannose in travaglio).
Chi ha provato, o è riuscito a cambiare qualcosa in questa direzione, sa quanto è difficile stare per tanti anni giorno e notte nei luoghi della nascita. Ci vuole una concezione del tempo empatica col lavoro del travaglio, uno specifico corso di studi, anni di esperienza. La conoscenza della sala parto non si può improvvisare. Così come l’aiuto alla donna nel parto a domicilio. Nemmeno con la nobile intenzione di legiferare e variamente sanzionare. Impossibile in questa ottica distinguere col bilancino i confini delle responsabilità delle rispettive professioni presenti sulla scena del parto. Perché mediamente si lavora insieme in quei luoghi, a parte i Centri Nascita, non a caso ancora pochi.
Tanto che, è bene ricordarlo, nel 2013, in occasione, per la prima volta in Italia, di uno sciopero dei soli Ginecologi, le Ostetriche espressero solidarietà alla loro protesta contro un eccesso di denunce medico legali, sentendosi allo stesso modo coinvolte, evidentemente. La posta in gioco è alta. C’è il primato italiano quasi mondiale dei Tagli Cesarei, che ben conosciamo. Una resistibile ascesa cui per anni le forze che si sono opposte sono state davvero poche. Neanche uno spot dai tanti Ministri della Sanità succedutisi negli anni, nemmeno adesso che si va avanti a giornate di celebrazione delle donne e a Manifesti quinquennali per la salute femminile.
Oggi il mantra della chiusura dei piccoli ospedali e della legge sulla responsabilità professionale è il fortino del deserto dei tartari in cui è ridotta una professione medica specialistica che non vuole e non sa modificare un modello ospedaliero di cure alla nascita oramai superato, inefficace e costoso.
La sorte della professione ostetrica in Italia è ancora indissolubilmente legata a questo modello, stretta tra le aspettative riposte da molti in una antica vocazione maieutica e la sua attuale incapacità (non volontà?) di essere autonoma e responsabile. Nel mezzo le donne, eterno soggetto bisognoso di tutela, auspicata in tutte le leggi che riguardano la sua salute riproduttiva (ma, se le parole hanno un senso, quando si affermerà un’ottica di genere anche nel legiferare?), dalla contraccezione alla 194, al “parto indolore”, alla procreazione assistita, ed infine al reato di violenza ostetrica.
Una marea di testimonianze ha inondato in questi giorni i social, con il riversarsi in rete di centinaia di crimini di pace o più recenti episodi di ordinaria sopraffazione, subiti dalle donne nelle loro esperienze di procreazione. Le stesse donne, se dobbiamo guardare ai numeri ed ai modelli culturali del paese, che ogni anno si distinguono a livello europeo con la scelta, nell’80% dei casi, del ginecologo privato per la gravidanza e il parto (con relative spese out of pocket), con il 7% dei TC su richiesta, e così via.
Abbiamo da sempre criticato l’inefficacia di un sistema educativo che non informa correttamente i pazienti per poi gettare su di loro il peso di scelte inappropriate, ma non è con espedienti legislativi dell’ultima ora, come è stato detto più volte in questi giorni, che si recupera un gap di decenni. In un già asfittico SSN, che nonostante questo conserva ancora i migliori standard assistenziali al mondo.
Da sempre sappiamo come donne quanta relatività vi sia nell’esperienza della procreazione, e come la vita, la nascita, appaiano in tempi e modi i più inaspettati e soggettivi: una gamma infinita, reazioni diverse da persona a persona. E come nessun esito o comportamento possa essere garantito come un elettrodomestico, e a volte neanche il sostegno o viceversa il distacco necessari, per fortuna non siamo macchine.
E’ augurabile che la risonanza mediatica della campagna “bastatacere” potenzi al contrario nelle donne la consapevolezza della straordinarietà della propria competenza procreativa e la coniughi con un atteggiamento più confidente verso se stesse e più critico nei confronti del mercato delle nascite (peraltro sempre più poche, e per questo meritevoli di qualità e soddisfazione delle cure).
Indipendentemente dal fatto che non è più rinviabile, nella variegata categoria degli aiutanti alla nascita, una riflessione critica sul futuro della professione ostetrica, tra responsabilità e autonomia, tra compassione e vocazioni.
Sandra Morano
Ginecologa Università degli Studi Genova
28 aprile 2016
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