La sanità, e il lavoro, non si possono cambiare solo con le norme
di Ivan Cavicchi
Non mi ha convinto quanto sostenuto ieri da Saverio Proia. Perché l’esperienza ci dice che la norma in sé, ovviamente necessaria per avviare un cambiamento (ammesso che sia giusta e scritta bene il che è piuttosto raro), da sola in sanità non è mai rivoluzionaria al contrario in genere ha effetti paradossali cioè restaurativi
18 GEN - “
Rivoluzionario di carta”, così definirei Proia, cioè una figura che con la carta, cioè la norma, crede di poter cambiare con grande facilità il mondo. Ma il rivoluzionario di carta è solo un ossimoro perché l’esperienza ci dice che la norma in sé, ovviamente necessaria per avviare un cambiamento (ammesso che sia giusta e scritta bene il che è piuttosto raro), da sola in sanità non è mai rivoluzionaria al contrario in genere ha effetti paradossali cioè restaurativi.
Basti riflettere:
· sulle tre riforme fatte per la sanità (‘78/’92/’99) che non hanno risolto il problema di sostenibilità lasciatoci in eredità dalle mutue e per questo non ci hanno evitato la gogna del definanziamento e che loro malgrado,di fatto hanno avviato un processo di latente controriforma;
· sul non essere riusciti a riformare il lavoro e le forme storiche di cooperazione tra professioni pur disponendo di una norma riformatrice (L. 42) che paradossalmente ha ridotto gli infermieri alla post ausiliarità, al demansionamento facendo nascere una figura davvero contro rivoluzionaria quella del “tappabuchi” e da ultimo partorendo mostri come il comma 566;
· sul comma 566 che Proia cerca di riciclare nel contratto, come aveva già annunciato (
QS 28 ottobre 2015), definito a più riprese una grande occasione, una svolta, una rivoluzione per l’appunto (
Qs 2 gennaio 2015) e che è rimasto sepolto sotto i conflitti politicamente ingestibili tra medici e infermieri. Prima vittima di una concertazione di carta impossibile;
· sui contratti che a partire dal primo della sanità (15 ottobre 1947) per passare a quello degli ospedalieri (23 giugno 1974) e quindi al primo contratto unico della sanità (25 giugno 1983) e via di seguito fino ai nostri giorni che con mille stratagemmi (cubo di Rubik cioè qualifica funzionale, dirigenza unica, aree, parificazioni, inquadramenti economici, competenze avanzate e specialistiche) non hanno mai riformato davvero il lavoro limitandosi in mille modi a riparametrarne le retribuzioni;
· sul fatto che ancora oggi il lavoro in ospedale, cioè le prassi, il modo di fare e di procedere, i ruoli, le relazioni tra professioni, sono nonostante tanta carta quelle della riforma Mariotti che a sua volta aveva fatto proprie quelle della riforma Petrignani del ‘38. Stessa clamorosa invarianza vale per la convenzione per la medicina generale. Il lavoro del medico di medina generale è cambiato nel senso che prima era pagato a notula ed oggi a quota capitaria ma a prassi invariante.
Di sfuggita faccio notare che, responsabilità innegabili dei governi a parte, proprio perché la prassi è rimasta contrattualmente invariata che oggi si hanno i problemi del contenzioso legale, della medicina difensiva, del conflitto tra professioni, ma anche quelli della decapitalizzazione. Se i contratti limitandosi ad aggiornare i salari accrescono la spesa pubblica senza cambiarne gli effettori, è inevitabile che alla fine in tempi di micragna con la decapitalizzazione si tenti di contenere la spesa pubblica.
Insomma rispetto ai gravi problemi della sanità la “rivoluzioni di carta” che propone Proia non è convincente e meno che mai lo è la sua proposta di tornare a giocare secondo tradizioni con il cubo di Rubik cioè di nuovo aree, parificazioni, competenze avanzate, inquadramenti vari, ecc.
Ancor meno convincente è la sua proposta di lotta agli sprechi con i premi di produttività, con “nuove” relazioni sindacali, con generiche responsabilizzazione degli operatori. Il lavoro contribuirà a ridurre le diseconomie solo se esso per primo non sarà diseconomico e per essere non diseconomico deve essere profondamente riformato a partire da chi lavora, da come lavora e dagli scopi sociali del lavoro.
Per non ripetere le proposte già avanzate mi limito a ricordare che per me si tratta di:
· cambiare l’actus ma prima ancora di cambiare l’agens;
· per cambiare l’agens bisogna ricontestualizzare le professioni per ridefinirne tre cose: contenuti , scopi e modalità;
· quindi passare dalla logica del compito a quella dell’impegno cioè entrare nella logica “
dell’opera professionale” cioè del lavoro effettivamente svolto come insieme di impegni,di autonomie e di responsabilità;
· infine ripensare con dei “
professional agreement” le forme retributive accettando il risultato come parametro definitore del valore del lavoro quindi aggiungere alle tradizionali retribuzioni mensili forme di attribuzioni periodiche desunte dai risultati.
Tutto questo è difficile lo so e in questi anni, sindacati in testa e a seguire ordini e collegi, hanno dimostrato di essere più inclini alle “rivoluzioni di carta” perché più alla loro portata. Il difficile consiste nel cambiare approccio: non si tratta più di partire dalla norma contrattuale che promette cambiamenti che non manterrà mai ma dai cambiamenti certi del lavoro definiti con degli accordi da tradurre successivamente in norma.
Chi conosce la storia della sanità, sa che i contratti sono venuti sempre dopo le riforme generalmente in ritardo (il primo contratto unico è dell’83 e la riforma di riferimento del ‘78) e generalmente garantendo invarianza al lavoro hanno sempre avuto effetti loro malgrado contro riformatori. Ma se riformare è difficile non vuol dire che riformare sia sbagliato. La riforma del lavoro di cui avremmo bisogno e che è il grande buco nero del riformismo sanitario non solo italiano è oggettivamente difficile ma anche oggettivamente indispensabile.
Infine c’è un altro aspetto del discorso di Proia che mi lascia ulteriormente perplesso che è la praticabilità politica di quello che lui propone. Lui parla di rinnovare contratti e convenzioni, di riorganizzare il lavoro e attuare la concertazione prevista dal comma 566 prendendo come base di riferimento il patto della salute. Mi chiedo:
· quanto il governo ha deciso di stanziare per il rinnovo dei contratti e delle convenzioni, perché se dal costo zero si passa al costo quasi zero, non vale la pena di fare tanti discorsi;
· ora che è uscito “revenant” uno splendido film di avventura che ho visto proprio ieri, che senso abbia resuscitare il comma 566 .Non credo che questo comma realisticamente possa essere un redivivo;
· che senso abbia citare come fonte il Patto per la salute dopo che è stato brutalmente bruciato dal governo e considerato in primo luogo dalle Regioni un capitolo chiuso.
Prima di scrivere questo pezzo ho esitato molto perché mi mette a disagio criticare un vecchio compagno di battaglie di cui conosco i limiti (che lealmente non gli ho mai taciuto ) ma anche la buona fede, la sincerità delle intenzioni ma soprattutto i suoi tanti meriti. A convincermi a scrivere è che ormai siamo alla frutta, e che secondo me per salvare la sanità pubblica non ci vogliono le “rivoluzioni di carta” ma vere riforme di pensiero e che il “pensiero debole” sul quale con Proia abbiamo già discusso qualche tempo fa (QS 20 aprile 2012) rischia di diventare complice della decadenza.
Ciò detto penso che tutti coloro, Proia compreso, che a partire dal mondo del lavoro, avvertono la necessità di un cambiamento farebbero bene a darsi una regolata e a coordinarsi per definire qualcosa che per lo meno assomigli ad una riforma.
Ivan Cavicchi
18 gennaio 2016
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