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Inchiesta QS/5. Un’Italia senza medici? Ferrario (Statale di Milano): “Regioni forniscano un’analisi seria del fabbisogno”


Secondo il Piano sanitario nazionale 2011-2013 entro il 2018 mancheranno 22.000 medici a causa del calo progressivo di laureati in Medicina. Quotidiano Sanità ha intervistato il prof. Virgilio Ferruccio Ferrario, preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Statale di Milano, secondo il quale è necessaria "una seria programmazione, anche per gli accessi alle scuole di specializzazione".

22 OTT - Senza un’approfondita analisi dei bisogni di salute caratteristici di ogni singola Regione, l’Italia rischia non solo di rimanere senza medici, ma anche di trovarsi di fronte a una carenza di specialisti in grado di rispondere ai bisogni di salute della popolazione, con un’inevitabile abbassamento dei livelli di qualità dell’assistenza offerta. Questa la posizione del prof. Virgilio Ferruccio Ferrario, preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Statale di Milano.


Prof. Ferrario, allarme carenza di medici in Italia. Un problema di programmazione del fabbisogno o un calo di interesse da parte dei giovani per la Facoltà di Medicina?
Nessun calo di interesse. Basti pensare che nella nostra Facoltà le domande per il test di accesso a Medicina sono state oltre 2.200 a fronte di circa 360 posti disponibili. Il vero problema è l’assenza di una programmazione seria da cui  può derivare fra breve non solo la carenza di medici, ma anche la carenza sul territorio di alcune specialità che già oggi si intravede.
 
Ma non sono proprio le Regioni a presentare ai ministeri competenti il calcolo del fabbisogno di posti per le immatricolazioni?
Sì, ma evidentemente il dato fornito dalle Regioni negli ultimi anni non era il risultato di un’analisi approfondita dei dati epidemiologici e demografici di ogni singolo territorio. Probabilmente si trattava più di un calcolo basato sulla capacità ricettiva delle strutture universitarie o sulla base dei posti messi a disposizione negli anni precedenti.
Sono anni che insisto affinché si faccia un programma di sviluppo di previsione razionalizzata e seriamente articolata.

Questo, però, è un difetto delle Regioni…
Certo. In Lombardia, da qualche anno, stiamo cercando di avere dati più precisi sulle previsioni di fabbisogno. Dobbiamo sicuramente migliorare, ma stiamo lavorando in questa direzione. Tuttavia non sono certo che tutte le  Regioni stiano facendo altrettanto. Credo che dai Ministeri della Salute e dell’Università dovrebbe arrivare una spinta in questo senso, sollecitando ogni Regione a presentare, entro un limite di tempo stabilito, un prospetto statistico della situazione attuale e del fabbisogno reale di oggi e fra 11 anni (6 per la laurea e 5 per la specializzazione).
Il numero di posti da mettere a disposizione per le immatricolazioni non deve essere imposto dall’alto, ma deve partire dalle  necessità espresse dalle Regioni. Un dato quantitativo che però sia basato su un valore qualitativo, cioè su un’analisi predittiva rigorosa e selettiva, che tenga conto dell’epidemiologia locale per implementare la presenza delle specialità correlate ai bisogni di salute espressi dalla popolazione in quello specifico territorio.
 
Negli ultimi anni c’è comunque stata un’implementazione del numero di posti a disposizione per le immatricolazioni..
Sì, ma insufficiente. Anche a causa di una disorganizzazione degli Atenei. Oggi il totale dei posti a livello nazionale viene distribuito tra le Regioni non sulla base del fabbisogno del territorio, ma della grandezza delle strutture universitarie che permettono di ospitare un numero basso o alto di studenti. Ecco perché il Lazio, nonostante abbia una popolazione che è la metà di quella lombarda, ha 1.518 posti contro i 1.177 posti a disposizione per le immatricolazioni a Medicina in Lombardia.
Anche in questo caso la colpa è in parte imputabile alle Regioni, perché gli Atenei dovrebbero programmare le proprie potenzialità didattiche sulla base del bisogno del territorio. Credo, tuttavia, che sia anche una responsabilità politica. Se i ministeri della Salute e dell’Università comunicassero per tempo della necessità programmatica di aumentare del 15%, mettiamo, il numero delle immatricolazioni in Medicina, le Università comincerebbero ad attrezzarsi per accogliere un numero maggiore di studenti.

Parlava della necessità di programmare non solo gli accessi a Medicina, ma anche quelli alle scuole di Specializzazione, giusto?
Assolutamente. Non basta avere un alto numero di medici se poi mancano le specialità necessarie per assicurare la qualità del servizio sanitario. L’allarme per la carenza di chirurghi è diffuso da tempo. Ma lo stesso vale per altre specialità. È assolutamente necessario indirizzare i ragazzi verso le specializzazioni legate alla domanda di salute della propria Regione. Questo è essenziale per il mantenimento di livelli assistenziali di qualità. Il rischio, altrimenti, è di doverli importare dall’estero, come insegna l’esperienza inglese.

Crede che l’allarme per la carenza dei medici nel prossimo futuro sia un problema arginabile o inevitabile?
Nel breve periodo credo proprio che si tratti di una situazione inevitabile, tenuto anche conto che per formare un medico occorrono minimo 11 anni. Sono peraltro convinto che nessuno sappia con certezza quanto sia grande questo allarme, il che rende difficile avviare un progetto di risoluzione. Credo però che se si metteranno in campo da subito gli strumenti necessari per una programmazione seria degli anni futuri, ci sia ancora il tempo utile per arginare il fenomeno prima del pensionamento di un’alta quota di medici oggi in attività.
 
Cosa pensa dell’aumento della presenza femminile nelle Facoltà di Medicina? Crede, ad esempio, che le specificità della vita di una donna, di cui fa parte anche la maternità e quindi eventuali mesi di assenza dal lavoro, possano acuire il problema della carenza dei medici?
Non vedo grosse complicazioni in questo senso. E comunque, anche in questo caso, si tratta di un dato noto sul quale si può da subito lavorare per evitare che si trasformi in un problema. Sinceramente, però, non credo che la presenza femminile possa rappresentare un problema per l’organizzazione del sistema. Però sembra incidere sul calo di vocazioni in alcune specialità tipicamente maschili, come quelle chirurgiche. Ma anche in questo caso, più che alla presenza femminile, credo che il vero ostacolo sia da attribuire alla mancanza di supporto legale che protegga la categoria da un ingiustificato boom di denunce penali.
 
Crede che la formazione in materie manageriale andrebbe implementata all’interno del percorso formativo di base?
Sono dell’idea che queste competenze, oggi necessarie, dovrebbero essere acquisite durante le specializzazioni o attraverso master post lauream.
 
Lucia Conti
 
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22 ottobre 2010
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