Sostenibilità del Ssn. Troise (Anaao): “Un dibattito inquinato da troppi pregiudizi”
di Costantino Troise
La questione del finanziamento del servizio sanitario è politica, prima che tecnica. In gioco non è solo il destino della sanità pubblica ma la stessa idea di società, di comunità, di coesione sociale, di esigibilità di un diritto alla salute che è uno e indivisibile e non può essere declinato in base al Cap o al reddito.
10 DIC - Non è stata “una tempesta in un bicchiere d’acqua”. Le parole del premier Monti a proposito della necessità di “forme diverse di finanziamento” per garantire la sostenibilità del nostro Servizio sanitario nazionale non sono da minimizzare. Sia per il metodo, che ricorda quello usato per mettere in discussione l’art.18, che per il merito. Da tempo, segnali premonitori, movimenti carsici e messaggi politici, più o meno espliciti, parlano, infatti, di costruire, sull’abbandono della solidarietà fiscale, la sanità per i ricchi, prefigurando lo smantellamento del sistema universalistico. Noi stessi abbiamo da tempo chiaro, e denunciato a più riprese, il rischio di tracollo del welfare, con la sanità nel ruolo di capro espiatorio, laboratorio per sperimentare ricette privatistiche e collaudare soluzioni tecnocratiche di uscita dalla crisi.
Difficile, quindi, sfuggire all’impressione di essere di fronte ad una operazione politica, malamente travestita da operazione contabile con l’alibi della neutralità tecnica, “una ghiotta occasione per quanti si oppongono allo stato sociale”, per dirla con Naomi Klein.
Reale è oggi il rischio di una deriva verso un modello duale, in cui un sistema pubblico impoverito di risorse economiche, professionali e tecnologiche, come si sta prefigurando, lascia spazio ad un modello assicurativo, alimentato da finanziamenti privati a copertura dell’onere economico di pezzi crescenti di assistenza. Diagnostica e specialistica, per cominciare. Una inevitabile resa.
Dando voce ai Medici, proviamo ad andare controcorrente, partendo da dati verificati.
Prevedere la crescita della spesa sanitaria nei prossimi 40 anni, almeno della quota pubblica, è esercizio fattibile. Ma il problema della sanità italiana non è tanto la crescita dei costi quanto la incapacità a crescere del sistema economico, cui, peraltro, la filiera della salute concorre con circa 13 punti di PIL. Ma è credibile che il Paese possa rimanere nella attuale recessione per 40 anni?
Il punto inconfutabile, e non confutato quanto banalmente ignorato, è che la sanità italiana non è il pozzo nero e senza fondo che molti si ostinano a descrivere. Lo dicono i risultati (OECD Health Data,2012). L’Italia è il paese dell’OECD dove la tutela della salute assorbe la minore spesa globale, sia pro capite che in relazione al PIL, associata a lusinghieri esiti clinici, un paradosso del nostro SSN, di cui dovremmo essere orgogliosi. Lo stato di salute della popolazione italiana è, cioè, migliore di quello medio dei paesi OECD con minore spesa, sia in termini di incidenza sul PIL che procapite.
La nostra spesa annuale pubblica in rapporto al PIL scenderà al di sotto del 7% nel biennio 2013-2014. Lontanissimi da noi Francia, Germania, Svizzera, che spendono oggi almeno 2 punti in più. Se si trasforma, poi, la spesa sanitaria pubblica e privata in dollari pro-capite, normalizzando per potere d’acquisto, quella italiana è inferiore in media del 21%, al dato europeo (CERGAS, Bocconi). Questo si chiama fare le nozze con i fichi secchi! E nessuna proposta potrà sfuggire a misurarsi con questo parametro, dovendo dimostrare di essere capace di estrarre maggiori, e migliori, cure da costi più bassi, dare di più a costi minori. E chi indica il modello tedesco dovrebbe prima ricordare che la Germania spende per la salute di ogni suo cittadino una cifra superiore del 46% alla nostra.
Ciò nonostante è ripartito il tormentone del “non si può dare tutto a tutti” o” non si può dare tutto gratis”, una variante aggiornata del “meno stato, più mercato” costruita su presupposti errati.
Innanzitutto, è curioso parlare di finanza e affari prima di parlare di governance ed organizzazione. Il che sembra dire che si assumono come fisiologici ed immutabili gli attuali livelli di inefficienza, inappropriatezza, incapacità. O la meridionalizzazione del debito e gli attuali flussi di spesa, e di potere. A partire dalla area grigia dei beni e servizi non sanitari, che rappresentano la seconda voce di spesa.
In secondo luogo, è già in atto un processo di privatizzazione, se è vero come è vero che la metà della spesa per farmaci è a carico dei cittadini, che pagano interamente anche il 55 % delle visite specialistiche e parte crescente della diagnostica. La contrazione dell’offerta pubblica sospinge già oggi ceti più o meno abbienti a cercare soluzioni di parziale o totale uscita dal sistema pubblico indirizzandoli verso forme di sanità privata. Uno dei modi per mettere in crisi l’universalismo è proprio quello di creare le condizioni per cui i ricchi, ricevendo pochi benefici, si sentiranno più protetti ed avvantaggiati da un sistema assicurativo privato. Quel che resta del pubblico, senza consistenti entrate fiscali, è destinato a peggiorare, come accaduto in Brasile. E la assistenza alle fasce fragili è assicurata da un esercito di badanti, in numero superiore ai dipendenti del SSN, i cui costi sono in gran parte a carico dei cittadini.
In quanto al “tutto”, non si comprende cosa impedisce di rileggere i LEA alla luce delle evidenze scientifiche e della appropriatezza clinica ed organizzativa, che rimane un forte elemento di contenimento dei costi, e di miglioramento di sicurezza ed efficacia! Secondo una fonte non sospetta quale il Cergas della Bocconi “ per attivare risorse aggiuntive sarebbe necessario sviluppare meglio le attività intramoenia e le sperimentazioni cliniche”. Certo si tratterebbe di reclutare a questo obiettivo le intelligenze professionali e considerare Medici e dirigenti sanitari “attori di salute” e non banali fattori produttivi, andando controcorrente rispetto all’aziendalismo imperante. Ma non si salva il sistema delle cure se non si salva chi quelle cure è chiamato ad erogare.
In un regime di produzione già misto, a metà tra pubblico e privato, i fondi integrativi, oggi utilizzati da 11 milioni di persone, con performance medie deludenti sul piano finanziario, possono certo ridurre i costi emergenti intervenendo a coprire le attuali lacune del pubblico, ma se vogliono esercitare una funzione di risparmio sulla spesa attuale devono assumere un carattere sostitutivo. Il problema è che in larga parte più che integrativi sono duplicativi.
Una riflessione a parte meritano le assicurazioni, cui si vuole dare impulso nella illusoria speranza di ridurre la spesa pubblica e aumentare la efficienza del sistema. Pare che nessuno tenga conto dell’ esperienza del sistema americano, gravato, oltre che da palmare iniquità e dal rischio individuale di bancarotta connesso ad una malattia grave, da costi esorbitanti, di cui quelli amministrativi, improduttivi per la assistenza, costituiscono il 15%, in soldoni il doppio di quanto si spende per le malattie cardiache ed il triplo della spesa per i tumori. L’idea che il privato garantisca una sanità migliore è del tutto scomparsa dal dibattito pubblico americano. Ed accetterebbero le nostre società assicurative l’obbligo ad assicurare, ad onta del meccanismo della selezione avversa implicito nel loro operare for profit? Pur non considerando che le compagnie di assicurazione possono fallire, come è già accaduto in Italia, i sistemi assicurativi o misti, dove le prestazioni sanitarie sono organizzate dal mercato, sono, in genere, più costosi, meno efficaci e meno equi rispetto a quelli universalistici. Pensare poi di potere governare con i criteri dell’equità un meccanismo del genere significa coltivare illusioni nella beneficenza della mano invisibile del mercato. Vogliamo ripetere l’esperienza del project financing o delle esternalizzazioni, presentate come la soluzione di tutti i mali economici?
Lo sviluppo di mutualità, ivi comprese le forme di assicurazione collettiva, comporta un cambio di sistema radicale dagli esiti, anche economici, perlomeno incerti. E la crisi economica rischia di essere un alibi per operazioni di questa natura che si alimentano, in un circolo vizioso, della scarsità di risorse dedicate. La spesa sanitaria non è un moloch ma è il Paese a dover decidere se la economia viene prima dei valori costituzionali o sono i valori ad orientare la economia, se i numeri devono occupare l’intero spazio mentale e materiale o in scena debbano essere rappresentati i diritti dei cittadini ed il valore del lavoro professionale. La stessa Corte dei Conti ha autorevolmente affermato che: “
una visione esclusivamente contabilistica del settore sanitario rischia di entrare in rotta di collisione con le finalità proprie del sistema” e “
la validità di una gestione (in un settore come quello sanitario) va vista anche e soprattutto in funzione dell’interesse pubblico sostanziale perseguito (tutela della salute)”.
Ed un governo serio, che voglia fare bene il suo mestiere, non può limitarsi a porre una falsa alternativa tra aumento di tasse e calo di servizi, il che tra l’altro è esattamente quanto sta oggi accadendo simultaneamente. La questione sottaciuta è, infatti, che il problema non è tanto del futuro quanto del presente. Pur in assenza di una esplicita volontà politica in tal senso, il nostro sistema sanitario sta già perdendo pezzi di equità ed universalismo, portato allo stremo da definanziamento, conflitti istituzionali, figli del fallimento del federalismo, marginalizzazione e penalizzazione delle componenti professionali. Ed arretramento tecnologico, se la e-health, da cui si attendono risparmi a tripla cifra, sconta ancora la assenza di una banda larga per la quale siamo fanalini di coda seguiti solo da Lettonia, Slovacchia e Grecia.
Nessuno come i Medici vede limiti, difetti, inefficienze e anche clientele e malaffare che inquinano il mondo della sanità. Ma oggi il dibattito è inquinato da troppi pregiudizi, ideologismi, aneddoti portati a sistema, luoghi comuni strumentalizzati da interessi che vedono la sanità come un mercato, in cui gli utili sono privati, i costi pubblici, i diritti delle persone un inutile appesantimento burocratico e il valore del lavoro e della responsabilità una variabile da saldare al massimo ribasso. La lotta agli sprechi, compresa la corruzione e la invadenza pervasiva della politica, su cui i cultori della non sostenibilità semplicemente sorvolano, non può rimanere ai margini, quasi un optional, di una discussione sulle modalità di finanziamento del servizio sanitario.
Occorre prendere atto della necessità di una riforma quater, un progetto organico in cui definire finanziamento, assetto istituzionale, governance, formazione, ruolo dei professionisti, sicurezza delle cure. Quanto costa avere consentito che la relazione medico paziente venisse inquinata da comportamenti opportunistici e dal gioco del cerino che rimane sempre in mano ai Medici? Quanto vale in punti di PIL il dilagare della medicina difensiva? E perché nessuno ci mette mano prima di parlare di affari?
La questione del finanziamento del servizio sanitario è politica, prima che tecnica, e la scelta del modello di welfare sanitario interroga la democrazia ad onta delle magnifiche e progressive sorti dei sistemi assicurativi. La sanità ridiventa un tema centrale nell’agenda politica italiana, alla ricerca di partiti o movimenti in grado di declinare politiche sanitarie alla altezza delle sfide di oggi e di misurare il consenso sulle loro proposte. In gioco non è solo il destino della sanità pubblica ma la stessa idea di società, di comunità, di coesione sociale, di esigibilità di un diritto alla salute che è uno e indivisibile e non può essere declinato in base al CAP o al reddito. Sarebbe un ritorno al passato stratificare, di fronte al diritto alla salute, la società in classi caratterizzate da modi diversi di rispondere allo stesso bisogno.
Costantino Troise
Segretario Nazionale Anaao Assomed
10 dicembre 2012
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