Il caso del dipartimento di studi europei Jean Monnet ha riaperto la questione del rapporto tra le professioni sanitarie e i titoli esteri. "Se effettivamente si vogliono risolvere queste criticità, agevolando la libera circolazione dei professionisti sanitari ed evitando la proliferazione di modalità formative potenzialmente inadeguate, che mettono a rischio la salute pubblica, va riformata la normativa europea che regola il riconoscimento dei titoli, in modo tale che sia equa ed univoca per tutti gli Stati membri".
Questa la posizione espressa sul tema dalla Federazione nazionale degli Ordini delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione (Fno Tsrm e Pstrp).
"Ultimamente, in generale, le richieste di riconoscimento dei titoli esteri sono incrementate, con sentita preoccupazione da parte dei nostri rappresentanti in seno alla Conferenza dei servizi al Ministero della salute deputata alla loro valutazione comparativa rispetto agli ordinamenti didattici dei corsi di laurea del nostro Paese. La formazione all’estero spesso non prevede l’accesso a numero programmato connesso alla determinazione di un fabbisogno di professionisti sanitari, entrambe variabili che, unitamente alla contrazione della durata della formazione, la rendono appetibile per coloro che ambiscono al titolo, ma non riescono a conseguirlo in Italia", spiega la Fno Tsrm e Pstrp.
Esiste anche la possibilità, raramente utilizzata, di un rigetto della domanda qualora il titolo presentato abbia lacune tali da renderlo eccessivamente difforme dalla realtà italiana.
"Quando la nostra Federazione nazionale iniziò a ricevere, da alcuni Ordini, dalle loro Commissioni di albo, nonché da alcune di quelle nazionali, segnalazioni sul Jean Monnet, quest’ultimo era posto sotto l’egida della legge 10 febbraio 2015, n. 14 (almeno così era pubblicizzato sul sito internet, ora non più disponibile) che avrebbe dovuto regolare i rapporti di collaborazione con la Bosnia ed Erzegovina (anche se non era solo quest'ultimo Stato ad essere coinvolto) ma che poteva rientrare nelle strategie utilizzate per scardinare il sistema di riconoscimento in Italia dei titoli conseguiti all’estero. Sono state attenzionate le relazioni con il territorio, per le finalità del tirocinio, senza poter avere contezza della reale portata di quella normativa, confidando nella richiesta di riconoscimento del titolo al Ministero della salute da parte degli interessati, certi che quello sarebbe stato il momento in cui i nodi sarebbero tutti venuti al pettine, il principale dei quali è relativo all’impatto che la formazione estera riesce ad avere sulla nostra normativa in tema di formazione universitaria delle professioni sanitarie, sia nella dimensione quantitativa che in quella qualitativa".
"In Italia, lo ricordiamo - prosegue la nota - per accedere ad un corso di laurea delle professioni sanitarie bisogna vincere un concorso, frequentare in presenza le lezioni (almeno il 75% in tutti gli insegnamenti all'interno dell'ordinamento didattico), unitamente alle attività di tirocinio ed altro. E sono proprio le modalità di accesso, la presenza in aula e presso le sedi di tirocinio i fattori che inducono anche molti connazionali a ricercare all'estero strategie per bypassare o ridurre l’impegno. La normativa europea, direttiva n. 2005/36/CE, non permette, ad oggi, di difendersi, per esempio, da corsi di laurea telematici, con fantomatici accordi sul territorio italiano per il tirocinio, in completo stile Jean Monnet, e durata inferiore ai tre anni previsti in Italia.
A tutto ciò, inoltre, si aggiunge il fatto che questi sistemi alternativi e fantasiosi di formazione danneggiano fortemente gli equilibri di domanda e offerta previsti dall’art. 6-ter del DLgs 502/92, secondo il quale il fabbisogno del personale sanitario, ed il relativo fabbisogno formativo, vengono definiti, di anno in anno, attraverso uno specifico percorso di determinazione dello stesso a cui partecipano il Ministero della salute, le Regioni/PA, le Federazioni nazionali degli Ordini delle professioni sanitarie e, successivamente, il Ministero dell’università e della ricerca, considerando la capacità formativa degli atenei per ogni specifico corso di laurea".
"La capacità formativa, oggetto di discussione da parte nostra, ha rappresentato nel tempo un ostacolo all’adozione ed implementazione dei necessari modelli organizzativi inter e multi professionali in quanto, come più volte sottolineato, sembra che le Università spesso non mirino a soddisfare le esigenze del Ssn, bensì ad incrementare le opportunità dei corsi di laurea più attrattivi in quel periodo storico o quelli che nel tempo hanno garantito di riempire le aule.
Negli anni, tale impostazione ha contribuito, per esempio, a creare differenze numeriche in tutte le aree professionali come quella della riabilitazione, della prevenzione ed infine anche quella tecnica sanitaria. Riteniamo opportuno che il preoccupante accentuarsi di alcuni fenomeni, quale quello inerente la crescente difficoltà a reperire determinate tipologie di professionisti, venga valutato con la dovuta attenzione".
"A nostro parere, se effettivamente si vogliono risolvere queste criticità, agevolando la libera circolazione dei professionisti sanitari ed evitando la proliferazione di modalità formative potenzialmente inadeguate, che mettono a rischio la salute pubblica, va riformata la normativa europea che regola il riconoscimento dei titoli, in modo tale che sia equa ed univoca per tutti gli Stati membri. Pur comprendendo le ragioni di quelle persone che in buona fede sono incappate nei meccanismi ambigui dei titoli esteri e nella certezza che le Autorità preposte sapranno individuare e distinguere le diverse posizioni, auspichiamo che i decisori, preso atto della gravità del problema, si adoperino per promuovere ogni utile iniziativa che sia finalizzata ad evitare il ripetersi di casi simili", conclude la Federazione.