Sicurezza punti nascita. La questione entra in campagna elettorale ma la sicurezza della donna e del bambino deve comunque prevalere
di Luciano Fassari
Le dichiarazioni di ieri del ministro Speranza in visita in Emila Romagna sulla possibilità di riconsiderare la chiusura dei piccoli punti nascita con meno di 500 parti l'anno sono state subito lette in chiave elettorale. Ma il tema esiste e va gestito bene perché partorire dove di parti se ne fanno pochi è un rischio assurdo che non dovremmo far correre a nessuno
14 GEN - “Nel Patto per la salute si prevede une revisione del
decreto ministeriale 70 che, al suo interno, disciplina anche la questione dei punti nascita” sotto i 500 parti l’anno. L’affermazione fatta dal Ministro della Salute,
Roberto Speranza ieri a Bologna durante la campagna elettorale per le regionali ha di nuovo aperto il dibattito sulla questione che ormai da 10 anni vede un confronto aspro: da un lato medici e ostetriche che chiedono di chiuderli (applicando quanto previsto dalle norme e dai protocolli Oms) perché poco sicuri e dall’altro le Regioni e i Comuni che raccolgono le proteste dei cittadini che vedono negato il diritto ad essere seguiti vicino casa durante la gravidanza e il parto.
Speranza era già stato sollecitato sul tema già in autunno
quando incontrò il presidente delle Regioni
Stefano Bonaccini.
Ma cerchiamo di far luce sulla questione. Il tutto inizia nel 2010 (Governo Berlusconi) quando l’allora Ministro della Salute,
Ferruccio Fazio emanò delle
linee d’indirizzo sui punti nascita. In quel documento (approvato in Conferenza Unificata) si mise nero su bianco, oltre a tutti i requisiti tecnici e di personale, che l’optimum minimo per un punto nascita è di 1.000 parti l’anno prevedendo però la possibilità di tenere aperti, proprio per andare incontro alle esigenze delle zone disagiate, anche quelli che effettuavano un minimo di 500 parti. Più i punti nascita sono grandi, organizzati, dotati di standard clinici all’avanguardia (si pensi per esempio alla terapia intensiva neonatale) ed effettuano molti interventi, meno è il rischio di errori.
Il provvedimento diede il via al processo di chiusura ma scatenò fin da subito numerose proteste e polemiche anche perché i piccoli punti nascita in Italia erano parecchi. Per questo motivo nel 2015 con il Dm 70 sugli standard ospedalieri si diede alle Regioni la facoltà di chiedere delle deroghe.
Il compito di valutare la possibilità di deroga fu affidato dal Ministero al
Comitato percorso nascita secondo un
protocollo metodologico in base al quale valutare caso per caso.
Gli ultimi dati disponibili del 2018 evidenziano che in Italia su 418 punti nascita ben il 15% presenta meno di 500 parti/anno e circa 27.000 bambini sono nati in tali strutture.
Un numero giudicato ancora eccessivo da parte di
ginecologi, ostetriche, pediatri, e neonatologi perché i punti nascita sotto i 500 parti “non sono in grado di garantire la migliore esperienza clinica e l'organizzazione necessarie per prevenire ed eventualmente affrontare le pur rare situazioni a rischio”.
La questione è certamente seria, perché come dicevamo all’inizio sono in ballo il diritto a ricevere cure sicure con quello a poter essere seguiti durante la gravidanza e il parto vicino alla propria residenza. In questo senso però il Consiglio di Stato con una
sentenza nei mesi scorsi ha ribadito come “il diritto fondamentale sancito dall’Art. 32 implica, nel caso di specie, non già necessariamente la vicinanza del punto nascita, ma un’organizzazione finalizzata all’obiettivo di garantire ad ogni gestante ed ad ogni neonato”.
Certo è che in questi anni sono stati messi in campo tutti gli strumenti normativi per ottenere le deroghe e in molte regioni l’accorpamento dei punti nascita è stato ben gestito.
Una questione quindi molto seria e che è bene resti scissa dagli interessi del momento e dalla specificità del caso "Emilia Romagna" perché, come lo stesso ministro Speranza ha dichiarato, “la tutela e la sicurezza della mamme e del nascituro è sempre la prima cosa”.
Luciano Fassari
14 gennaio 2020
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