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La sanità è “indevolvibile”

di Ivan Cavicchi

La mia proposta è semplice: siccome, per la sanità, non è possibile rinunciare, nell’interesse del paese, ad un ruolo regolatore dello Stato, si tratta di dichiarare che la sanità è indevolvibile, quindi stralciare questa materia dalla proposta di legge del ministro Stefani

24 SET - Ci si lasci fare
“Per governare il cambiamento il presupposto principale è che ci si lasci fare”lo ha dichiarato Luca Coletto, assessore alla sanità del Veneto, a Gallio sull’altipiano di Asiago (QS 21 settembre 2018).
 
Quindi “lassez-nous faire”: il Veneto rifiuta il ruolo regolatore dello Stato convinto non solo di bastare a se stesso ma, come fa intendere Coletto, di essere addirittura meglio dello Stato
 
Il laissez faire (letteralmente “lasciate fare”) è il principio base del liberalismo contrario in modo intransigente all’intervento dello Stato: il singolo interesse è sufficiente a garantire quello collettivo.
 
Ma in tutta coscienza e in tutta serietà, considerando l’enorme delicatezza morale della sanità e la sua enorme complessità politica, secondo voi, essa sarebbe materia da laissez faire?  
 
Desideri inconfessati
Il Veneto non vede l’ora di trasformare i medici di medicina generale in dipendenti perché ritiene che questa categoria sia fatta da una massa di lavativi, che fanno quello che vogliono, in barba ai problemi dei malati e dei bilanci.
 
L’Emilia Romagna, invece, i medici di medicina generale li vuole mettere nelle case della salute e, nello stesso tempo, non vede l’ora, in nome della sostenibilità, di fare entrare nella gestione della sanità Unipol, e di fare una grande mutua regionale. Ma non solo: in questi anni ha brigato per sottomettere la deontologia medica alle sue esigenze amministrative e avere le mani liberi nell’impiego delle professioni convinta che i medici siano tutt’altro che infungibili.
 
La Toscana può essere considerata la madre della task shifting. L’idea delle competenze avanzate è sua, convinti che, in un ospedale, mettere infermieri al posto dei medici sia, da un punto di vista amministrativo, economicamente più conveniente. La Toscana, per ragioni di bilancio, sogna da tempo, soprattutto per l’ospedale, una grande flessibilità nell’impiego delle professioni e si rammarica che le norme vigenti, quelle che definiscono ruoli e percorsi formativi, glielo impediscano.
 
Tutte le regioni si sono sempre lamentate che è difficile gestire fattori di costo come il lavoro, mantenendo una forma “nazionale” del contratto o della convenzione perché questa, secondo loro, non renderebbe le complessità locali della gestione. Per le regioni, la forma nazionale dei contratti, è sempre stato un problema, al punto da desiderare una contrattazione regionale anche se il rischio è regredire agli anni 60 quando ogni ospedale, ogni comune, ogni regione, aveva il proprio contratto.
 
Avrebbero potuto fare molto ma hanno fatto molto poco
Tutte le regioni, pur avendo, nel quadro normativo dato, notevoli poteri in materia sanitaria, teoricamente avrebbero potuto ribaltare  il mondo, riformare tutto il riformabile (quante proposte ignorate in questi anni), cioè fare dipartimenti veri, distretti veri, aziende vere, integrare l’ospedale con il territorio, fare sul serio prevenzione, ripensare il lavoro ma, sino ad ora, nel loro insieme, esse non sono riuscite ad emanciparsi (neanche le migliori tra loro) dalle gabbie di vecchie e superate concezioni organizzative, cioè dalle gabbie di vecchi modelli di servizio e di vecchie concezioni di tutela.
 
Del resto i tanti assessori alla sanità che ho conosciuto nella mia vita professionale, devo dire che, a parte alcune eccezioni, non erano proprie delle aquile. La stragrande maggioranza di loro era arruolata dalla politica, dai settori più disparati della società. Me ne ricordo uno del Pds che fabbricava chitarre e che per una questione di voti doveva avere un posto a tavola. Gli diedero la sanità.
 
Si è fatta una grande cagnara ai tempi dei comitati di gestione delle usl perché il tranviere, si diceva, non poteva gestire la sanità, ma sugli assessorati alla sanità la politica ha osato l’inimmaginabile. Ma non si è mai posto il problema.
 
Nessuna delle regioni, sino ad ora, a parte mere misure di riordino e di riorganizzazioni dell’esistente, ha prodotto una soluzione che si possa definire “nuova” cioè davvero riformatrice. Gli ospedali, ad esempio, a parte qualche controversa esperienza (alta intensità di cura) in ogni regione sono, come modello di servizio, fermi alla riforma Mariotti del 68.
 
Come mai? Come mai sono 30 anni che corriamo dietro, senza riuscirci, all’integrazione ospedale/territorio? Cioè, come mai da un secolo le regioni non sono riuscite a superare il sistema duale territorio/ospedale sancito con la legislazione degli anni 30? Sono i fabbricanti di chitarre o i geometri, ma anche i ministri senza una laurea, il problema?
 
Senza un pensiero le regioni non pensano
Le regioni, prese come sistema di governo, da sempre, sono soggetti istituzionali ai quali, sulla sanità, si deve dire cosa fare. La riforma del 78 aveva assegnato le competenze sulla sanità ai comuni interpretando il dettato costituzionale, perché aveva giudicato le regioni istituzioni immature. Esse devono avere delle norme nazionali che le guidino, dentro una strategia politica al fine di realizzare gli obiettivi costituzionali del diritto alla salute uguale per tutti.
 
Lasciate a se stesse, le Regioni e con gli assessori che la politica seleziona per governare la sanità, sono un problema, perché per prima cosa esse sono intellettualmente insufficienti. Per ragioni di sostenibilità a riformare, cioè a cambiare in meglio, non sono capaci, ma a contro riformare cioè a cambiare in peggio, sono maestre.
 
Vi rammento:
- le misure di riordino che hanno deciso gli accorpamenti territoriali delle aziende e che hanno suscitato, in molti casi, rivolte popolari, distrutto la nozione di territorialità, immiserito l’idea di azienda,
- la dismissione di massa dei posti letto senza che sia avvenuta una coerente riconversione territoriale,
- la tragedia dei piani di rientro attraverso i quali le regioni non hanno esitato a massacrare i diritti soprattutto dei più deboli,
- la “medicina amministrata” e l’oppressione che le regioni hanno esercitato soprattutto sui medici riducendoli a burocrati,
- l’ossessione della sostenibilità che ha fatto loro adottare le misure più strampalate. 
 
“Regione-Stato”
Ebbene se la sanità, quale materia, fosse devoluta dallo Stato alle Regioni, come propone il ministro per gli affari regionali, Stefani, i desideri segreti delle regioni, potrebbero realizzarsi e i loro geniali assessori dare luogo a quella che potremmo definire: l’inettitudine al potere.
 
Teorizzare sulla sanità una Regione-Stato è molto pericoloso, prima di tutto per i cittadini, per non parlare degli operatori, perché, per ovvie ragioni, le Regioni, sulla sanità, non possono essere Stato, al massimo possono essere parti, anche importanti, di esso.
 
Rinunciare alla funzione regolatoria dello Stato sarebbe come distruggere un secolo di legislazione sanitaria e far regredire il paese a tempi che è bene siano passati.
 
Sostituire il concetto di autonomia con quello di autarchia, è una follia politica che, a ben ragionare, nessuna forza politica responsabile si potrebbe permettere senza pagare un pesante prezzo di consenso politico.
 
Posso capire i Veneti, ma gli altri, quelli che la Lega metterebbe in croce rompendo l’unità del sistema, che sono molto più numerosi dei veneti, voteranno Lega specialmente ora che questo partito si sta proponendo come una grande forza nazionale e sovranista?
 
La sanità è indevolvibile
La mia proposta è semplice: siccome, per la sanità, non è possibile rinunciare, nell’interesse del paese, ad un ruolo regolatore dello Stato, si tratta di dichiarare che la sanità è indevolvibile, quindi stralciare questa materia dalla proposta di legge del ministro Stefani.
 
Del resto, ricordo al Veneto, che la sanità, se non sbaglio, non fosse oggetto del referendum. Se non ricordo male la Corte Costituzionale ammise il quesito n°1 in quanto “non prelude a sviluppi dell’autonomia eccedenti i limiti costituzionalmente previsti”.
Sembrerebbe che la devoluzione della sanità sia costituzionalmente consentita ma non c’è ombra di dubbio che i viluppi tra norme che consentono e norme che vietano costituiscono una complessità non solo giuridica ma politica che andrebbe esplorata meglio.
 
Cosa vuol dire ad esempio “nelle materie di legislazione concorrente spetta alle regioni la potestà legislativa salvo che per la determinazione dei principi fondamentali riservata alla legislazione dello stato”.
La sanità è soprattutto una questione di principi fondamentali.
 
E poi a  parte la fattibilità giuridica non dobbiamo dimenticare che quel pastrocchio del titolo V ha dato luogo ad un gigantesco contenzioso legale tra istituzioni, non vorrei che con la devoluzione della sanità dal contenzioso legali si passi a vere e proprie fratture tra istituzioni dando luogo ad un altro genere di contenzioso questa volta proprio sul rispetto dei principi fondamentali.
 
Non sono un costituzionalista, ma se fossi il ministro Grillo, esplorerei meglio gli intrecci del combinato disposto tra gli articoli della Costituzione anche per evitare guerre tra istituzioni.
 
Se risultasse che la sanità pur essendo compresa tra le materie devolvibili risultasse politicamente destabilizzante per l’intero sistema pubblico, allora la sanità dovrebbe essere dichiarata politicamente indevolvibilie  perché devolverla sarebbe un gravo atto di irragionevolezza.
 
Il rischio dei paraocchi
A parte i problemi costituzionali, sui quali lascio ai giuristi l’analisi, ammesso e non concesso di poter devolvere la sanità, non si può devolvere una materia tanto complessa e socialmente rilevante, senza:
- una intesa (concerto) con il ministero competente,
- un confronto approfondito, con chi rappresenta la sanità in tutte le sue componenti sociali, sindacali, professionali e scientifiche.
 
E’ bene che ci si rammenti, qualche volta, che attraverso la sanità centinaia di migliaia di persone si occupano, a vario titolo, della vita e della morte di milioni di persone.
 
Il primo errore da evitare è, quello dei paraocchi cioè di pensare il trasferimento della materia sanità, solo da un punto di vista squisitamente istituzionale e legislativo, cioè senza esaminare le ricadute possibili di un provvedimento di secessione sulla società e sul paese.
 
Nell’audizione del ministro Stefani presso le commissioni riunite Affari costituzionali di Camera e Senato, il ministro ha spiegato, a dir il vero con grande correttezza, le possibilità offerte dalle norme costituzionali, ma in nessun modo, sulla sanità, ha affrontato il problema dell’impatto sociale del suo provvedimento sia in senso positivo che in senso negativo, per la semplice ragione che non ha le competenze per farlo.
 
Non ci vuole niente a trasferire sulla carta delle materie come la sanità da una istituzione all’altra ma quali conseguenze? Cioè se in via teorica il cambiamento istituzionale fosse legittimo ma sul piano pratico fosse uno svantaggio per il paese o per i cittadini del veneto, che si fa?
 
Siccome manca uno studio sull’impatto della proposta di devoluzione della sanità alla regione Veneto, chiederei al ministro Grillo di proporre al ministro Stefani, per il momento, di stralciare la sanità dal suo provvedimento per mettere in piedi un tavolo di concertazione con lo scopo di valutare attentamente, oltre la fattibilità normativa, il suo impatto sui cittadini del veneto e sul paese.
 
Norme costituzionali laconiche
In attesa di sapere cosa ci diranno i costituzionalisti è indubbio che gli articoli della Costituzione in questione sono norme piuttosto avare di indicazioni, di limiti, di condizioni e quindi troppo pericolosamente laconiche. Cioè eccessivamente performative.
 
Lo stesso ministro Stefani, nella sua audizione, molto correttamente ha sottolineato la difficoltà di applicazione di queste norme, perché sono tanto perentorie da essere prive di una metodologia di accompagnamento.
 
Una norma è performativa nel senso che si propone, in quanto tale, come condizione sufficiente per auto adempiersi. Ma una norma quale unica condizione per trasferire la sanità   dallo Stato alle Regioni, è molto ma molto pericolosa. Cioè non basta avere la norma per decidere cambiamenti tanto delicati. Le norme di questo tipo, per essere usate senza fare danni, non possono che essere correlate da garanzie sul loro uso.
 
Per esempio: ammesso di devolvere la sanità al Veneto questa regione potrebbe ridiscutere i contratti? Le norme sulle professioni?  Violare le deontologie? Venire meno a delle metodologie conclamate? Cioè potrebbe davvero fare il laissez faire cioè quello che le pare?
 
Mancano condizioni vincolanti
Se, la sanità quale materia, fosse trasferibile alle regioni, ma a invarianza di norme nazionali allora il problema sarebbe diverso. Ma in questo caso si tratterebbe di riscrivere la norma devolutiva. Cioè diamo alle regioni tutta la sanità che vogliono ma sia chiaro che esse non hanno il potere di cambiare i principi, i postulati le regole fondative del nostro sistema.
 
Questa, della norma priva di condizionali volti a salvaguardare i valori generali e universali per altro descritti dall’art 117 (principi fondamentali definiti dallo stato) è un’altra ragione per la quale, se fossi il ministro Grillo, chiederei lo stralcio della materia sanità dal provvedimento Stefani.
 
Detto ciò è del tutto evidente che se le norme per devolvere la materia sanità alle regioni fossero vincolate al rispetto delle normative nazionali, esse perderebbero di potere diventando pressoché inutili e il laissez faire non avrebbe senso. Se ho dei limiti che mani libere ho?
 
Vorrei che non si dimenticasse che, le regioni, già oggi, grazie alla riforma del titolo V del 2001, hanno enormi poteri sulla sanità ma non quello di modificare le leggi nazionali, i contratti, le professioni, il lavoro, l’universalità, i servizi, la formazione, i lea, i diritti, i principi.
 
Ma conviene?
Personalmente penso che, alla fine, la secessione della sanità per tante ragioni, assessori compresi, non convenga prima di tutto ai veneti. Dal punto di vista finanziario, come ci ha spiegato il ministro Stefani non c’è nulla da guadagnare pur tuttaviai veneti rischiano di essere tagliati fuori da una strategia nazionale, di trovarsi alle prese con una spesa sanitaria con una forte natura incrementale e per di più con gli stessi problemi di tutti. A parte i poteri del governatore che crescono mi chiedo ma quali sono i vantaggi reali possibili per i Veneti?
 
Riapriamo il discorso sul federalismo
Le Regioni hanno buon gioco nello spiegare le loro difficoltà con le restrizioni e le incapacità imposte loro in questi anni dai governi centrali (definanziamento, tagli e blocchi vari, decisioni sbagliate). Per cui è comprensibile che, per liberarsi di ogni condizionamento, esse tendano a liberarsi del “limite” tout court. Pur comprendendo ciò penso che in sanità liberarsi del limite sia irrealistico e che la soluzione della devoluzione sia inaccettabile.
 
L’idea di devolvere la sanità, è una soluzione estrema che nasce:
- da una serie di fallimenti a partire dal titolo V quindi da una sbagliata idea di federalismo,
- dai risultati scarsi ottenuti con i patti per la salute,
- da una crescente perdita di autonomia della regione,
- da referendum andati male,
- da governi troppo disinibiti nei confronti della speculazione finanziaria
- da politiche di definanziamento concepite contro lo sviluppo della sanità.
 
Che fare? Forse è arrivato il momento di riprendere in mano seriamente il tema del federalismo. Cioè di fare un nuovo discorso, a tutto campo, sia sulla governance (gestione) che sul governament (governo).
 
Uno scambio politicamente regressivo
Il ragionamento rozzo di Bonaccini che, a Gentiloni, quindi prima di Conte, aveva proposto di barattare “de con de” (de-finanziamento con de-voluzione) è degno di un Pd smarrito, in crisi e privo di senno politico, cioè privo di idee riformatrici.
 
Oltretutto in fragrante contraddizione con il referundum del 4 dicembre promosso dal Pd che puntava a riequilibrare i rapporti tra regioni e Stato. Non è con la stupidità politica che si recupera il consenso della gente. La sfida è proprio un’altra dal “de con de” al “de con ri” : de-voluzione, de-finanziamento ecc. con ri-forme).
 
Nella “quarta riforma” ho scritto che si tratta di definire un nuovo progetto di “universalismo” da attuare attraverso una nuova forma federale da dare alla sanità.
 
La mia proposta che rivolgo in particolare alla Lega e al M5S ma che estendo a tutti i partiti in campo, non è:
- difendere lo status quo contro la proposta del ministro Stefani che alla fine non fa altro che fare il suo mestiere, perché lo dico ormai da troppi anni il governo della sanità fa acqua da tutte le parti quindi non è oggettivamente difendibile,
- ignorare i problemi delle regioni perché essi esistono a prescindere da chi li ha creati.
 
Per me si tratta di riformare ciò che non va ma senza tradire i valori in campo.
 
Riformare, caro Bonaccini, non contro-riformare. Ciò che non va  è prima di ogni cosa il modello di governo che la politica ha imposto alla sanità. E’ dagli anni 90 che si inizia a parlare di “questione istituzionale”, è da allora, dopo che dai comuni siamo passati alle Regioni, che discutiamo dei rapporti tra gestione e governo ma senza venirne mai a capo.
 
Nel frattempo abbiamo incassato due fallimenti:
- quello dell’azienda quindi dell’ideologia bocconiana che ha dato di se una prova deludente,
- quello della riforma del titolo V che ha frammentato l’unità del sistema creando diseguaglianze intollerabili.
 
Oggi il Veneto alle prese con i suoi problemi non solo è per il laissez faire ma è anche quello che teorizza l’azienda zero. Occhio di questo passo  la politica rischia di scadere  nella dittatura del tecnocrate.
 
Cinque, quindi, i grandi obiettivi politici che propongo alla Lega e al M5S:
- fare della comunità, che è il vero soggetto di una corretta idea di federalismo, il nuovo archè per ripensare la nostra vecchia idea di tutela,
- a partire dalla comunità fare più eguaglianza usando le specificità e le differenze,
- mettere insieme solidarietà e sussidiarietà in una strategia per la produzione di salute quale ricchezza del paese,
- preoccuparsi di rendere adeguate le prassi professionali quindi i servizi a ciò che è già cambiato da tempo cioè  a un nuovo genere di domanda di salute (non c’è solo la cronicità e l’invecchiamento della popolazione),
- fare dell’adeguatezza la vera chiave di volta della sostenibilità.
 
Ivan Cavicchi

24 settembre 2018
© Riproduzione riservata

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