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Il caso Pizza/Venturi e quell’insofferenza alle linee guida

31 OTT - Gentile Direttore
si parla e si riparla dell’azione sanzionatoria dell’ordine dei medici di Bologna contro chi adotta o propone protocolli infermieristici avanzati. Si legge di tutto da parte di più figure professionali, dall’argomentato parere professionale e collegiale, a slanci degni dell’amico del giaguaro. Certo, il lettore medio ne uscirà confuso.

Io stesso ho cercato di vederci più chiaro, e ho ridotto la questione ai minimi termini. In Common Law si farebbe riferimento a un caso paradigmatico; così io credo di aver trovato il nocciolo della questione nella diatriba Medico-Autore vs Slow Medicine e Choosingwisely innescata da Pizza e Cavicchi.
 
In merito ai numerosi interventi sfociati, presumo che la questione si riduca fondamentalmente a questo: agire secondo protocolli oppure agire secondo esperienza/autorità personale.

Sono due strade che contrappongono i professionisti, a livello etico e psicologico prima ancora che operativo. Non a caso, è proprio di natura deontologica l’arma usata per fermare alcuni protocolli, anche se provenienti da un’autorità amministrativa.

Si evince che la questione va ben al di là del 118 di Bologna. I protocolli/linee guida/algoritmi sono innestati nella ultima legge Gelli sulla responsabilità professionale. Molti Paesi li adottano da decenni, talora sviluppandone dei nuovi, come patrimonio comune del sapere e dalla buona prassi scientifica. Il modello di ricercatore o luminare solitario (pensiamo a Louis Pasteur) è tramontato.
 
Programmaticamente, oggi si lavora in gruppo, in squadre di ricercatori e clinici che mettono e rimettono alla prova le prassi per poi sviluppare dei percorsi che hanno superato la soglia della migliore evidenza disponibile. La dimostrazione di questo è che oggidì è difficile (anzi, praticamente impossibile) lavorare e ottenere il credito e i progressi in solitaria come Pasteur, mentre l’istituto che porta il suo nome è composto da tante persone. I premi Nobel negli ultimi anni sono persone che hanno operato in team, guidandoli ma mai in solitaria. Sono punte di un iceberg. Il frutto di tale sviluppo condiviso sono detti “consensus papers”, consenso su cui poggiano appunto linee guida, raccomandazioni e anche gli odiosamati algoritmi.

È una visione programmaticamente riduzionistica, antiindividualistica, aperta alla revisione.
Questo urta molti professionisti, che si sentono meno autori, assoggettati a schemi precostituiti da applicare senza troppe discussioni, specie quando la prognosi è a rischio di vita.

Ma questi schemi hanno un respiro limitato perché soggetti a revisione, secondo il motto “vero fino a prova contraria”. Persino i più semplici corsi di rianimazione di base per laici, fondati su rigidi algoritmi, offrono certificazioni che hanno una scadenza.

Intere generazioni di persone negli USA e ora anche in Italia sono state addestrate a scuola secondo quegli algoritmi. Pian piano entreranno nel nostro DNA, a scapito del nostro orgoglio di individui sapienti e senzienti ultraspecialisti.

Ricordo di un’oculista in un supermercato che stava soccorrendo una gravida in stato di incoscenza e a rischio di ostruzione delle vie aeree a causa di ipoglicemia: per prima cosa voleva una pila per valutare il fundus oculi...per fortuna l’addetto alle casse ha deciso di metter la gravida in posizione di sicurezza e chiamare il 118.

Con un ricambio generazionale, senza perdere di vista le proprie sacrosante abilità, i professionisti sanitari del futuro anche in Italia saranno meno luminari e più team interprofessionali. Anche il biasimo al collega o all’altro professionista verterà più sulla adesione alle buone pratiche che non sul capriccio o sull’autorità gerarchica, si spera. Soprattutto, sarà sempre meno “socialmente accettabile” attaccare i protocolli in maniera preconcetta.

Occorre un cambio generazionale.
 
Ivan Favarin
Infermiere

31 ottobre 2018
© Riproduzione riservata

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