È un blackout comunicativo quello che fa viaggiare su due rette parallele ospedali e servizi sanitari territoriali. Perché specialisti ospedalieri e medici di famiglia si consultano quando un paziente è ricoverato in appena il 15% dei casi, mentre in otto casi su dieci i pazienti arrivano in reparto senza che si sappia nulla dei loro trascorsi in fatto di salute perché il fascicolo sanitario elettronico è aggiornato appena una volta su cinque. Così non ci si deve poi stupire se in media tre ricoveri su 10 si sarebbero potuti evitare con una migliore presa in carico dei pazienti da parte dei servizi territoriali. Il che in numeri assoluti fa 2 milioni e 250 mila ricoveri evitabili l’anno, pari a uno spreco di circa 6 miliardi, calcolando che il costo medio di un ricovero è di circa 3mila euro. Mentre, a proposito di ricoveri impropri, sono in media il 20% quelli di natura “sociale” più che sanitaria. Ossia di pazienti che si sarebbero potuti assistere anche a casa se solo esistesse un servizio di assistenza domiciliare o una rete familiare in grado di accudirli.
È questa la fotografia poco consolante del muro che separa in sanità ospedali e territorio, scattata dalla survey condotta da Fadoi, la Federazione dei medici internisti ospedalieri, su un campione rappresentativo di tutte le Regioni. Due mondi quasi incomunicabili che finiscono per generare accessi impropri ai pronto soccorso e ricoveri evitabili. Problemi che solo per il 7,6% dei medici potranno essere risolti da ospedali e case di comunità, il fulcro della riforma sanitaria territoriale finanziata complessivamente con oltre 7 miliardi del Pnrr.
In un ospedale su tre oltre il 40% dei ricoveri causato dalla mancata presa in carico del territorio
Nel 34,1% delle strutture si sarebbero invece potuti evitare un buon 30% dei ricoveri con una migliore presa in varico dei pazienti nel territorio.
Percentuale di ricoveri impropri che è di più del 40% nel 33,7% dei nosocomi, mentre in altre realtà ospedaliere la quota di ricoveri evitabili oscilla fra il 10 e il 20%. Solo l’1,8% non segnala ricoveri impropri per carenze della sanità territoriale.
Variegate le azioni che a giudizio dei medici internisti ospedalieri avrebbero potuto evitare ai pazienti di soggiornare in reparto. Per il 32,6% servirebbe un maggior rapporto tra ospedale e territorio, per un altro 32,4% una maggiore offerta di assistenza domiciliare integrata, per il 21% basterebbero le nuove case e ospedali di comunità e per il 13,9% sarebbe necessaria una apertura più continuativa degli studi dei medici di famiglia.
Appena il 20% dei medici del territorio aggiorna il fascicolo sanitario elettronico. Consulti rari o inesistenti nell’85% dei casi
Per comunicare pur senza parlare uno strumento ospedale e territorio ce l’avrebbero ed è il Fascicolo sanitario elettronico, che dovrebbe contenere tutta la nostra storia sanitaria, dalle patologie che ci affliggono alle terapie che assumiamo al momento di finire in ospedale. Peccato che i medici del territorio, anche per farroginosità burocratiche, non riescano ad aggiornarlo nel 39,3% dei casi o lo facciano raramente nel 41% dei casi.
Le stesse alte percentuali si ritrovano quando si tratta di rilevare il dialogo tra medici ospedalieri e territoriali. I primi nel 71% dei casi SI consultano solo raramente CON i medici di famiglia e gli specialisti ambulatoriali quando un paziente viene ricoverato, mentre per il 13,7% il consulto non avviene proprio mai. Si verifica invece abbastanza frequentemente appena nel 15% dei casi. La consulenza si attiva sempre appena lo 0,2% delle volte.
Riforma sanitaria territoriale: manca il link con l’ospedale
Se questo è il presente il futuro non è tinto di rosa dalla riforma della sanità territoriale, centrata sui maxi ambulatori aperti sette giorni su sette, ossia le case di comunità e gli ospedali sempre di comunità che dovrebbero accudire i pazienti che possono essere dimessi ma non sono in grado di tornare a casa propria. Strutture che per il 38,7% dei medici internisti non riusciranno ad evitare il ripetersi di ricoveri ed accessi impropri ai pronto soccorso, mentre per il 29,4% potrà influire positivamente ma a patto che la riforma venga modificata.
Come fare lo svela l’ultima sezione della Survey Fadoi. Per il 42,1% degli internisti ospedalieri occorre prima di tutto un provvedimento, ancora mancante, che fornisca indicazioni precise su quali professionisti del territorio e con quale modalità debbano lavorare nelle nuove strutture, mentre per il 27,9% occorrono regole che disegnino il rapporto tra queste strutture e l’ospedale. Per un altro 20,5% servono piattaforme informatiche comuni tra ospedale e strutture del territorio, perché anche qualora i medici schierati in quest’ultimo aggiornassero il fascicolo sanitario elettronico, c’è da dire che oggi in molti casi i sistemi informatici delle varie strutture sanitarie, anche di una stessa regione, non comunicano tra loro. Solo per il 9,5% servirebbero invece finanziamenti specifici per il personale delle strutture territoriali.
“L’indagine condotta in questi giorni da Fadoi dimostra numeri alla mano quello che come internisti ospedalieri abbiamo sempre denunciato, ossia lo scollamento pressoché totale tra ospedale e territorio. Anacronistico in un Paese che invecchiando vede aumentare il numero di pazienti cronici con poli-patologie che richiedono una presa in carico globale, che ricomprenda sia la fase che precede il ricovero sia quella seguente”, afferma il Presidente della Federazione , Francesco Dentali. “Purtroppo, come segnalano a larga maggioranza i nostri medici, questa frattura non sarà ricucita dalla riforma della sanità territoriale finanziata con i soldi del Pnrr, che ha disegnato le mura delle nuove strutture, senza definire chi ci lavora e come si rapportino con l’ospedale”.
“Come mostrano i risultati della survey, servono regole chiare e stabilite a livello nazionale che leghino tutta la filiera del Servizio sanitario nazionale. Oggi invece -afferma Dario Manfellotto, presidente della Fondazione Fadoi- i percorsi di cura sono frammentati e spesso si formano dei colli di bottiglia che intasano le strutture”.
“Per questo – prosegue- servirà agevolare il percorso casa-territorio-ospedale-post acuzie-riabilitazione-casa, con regole d’ingaggio strette e rigorose. La regìa non la può fare in modo burocratico una ‘Centrale operativa territoriale’ ma una équipe di professionisti competenti. E poi un ospedale di comunità a ‘quasi totale gestione infermieristica’ non può funzionare, per cui si rende necessaria un via nuova, che coinvolga gli specialisti dell’ospedale in collaborazione con i medici del territorio, con percorsi assistenziali ben definiti”.