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Il commento: Le tante ipocrisie sull’intramoenia


08 SET - -

di Cesare Fassari

Stamattina ho partecipato come ospite alla trasmissione radiofonica della Rai “Radio Anch’io”. Il tema era quello della malasanità. A partire dagli ultimi fatti di cronaca e in particolare da quello di Messina, balzato sulle prime pagine per la ormai tristemente famosa rissa tra ginecologi in sala parto. Come è noto quella rissa non verteva su questioni personali o cliniche ma su chi avesse o meno la responsabilità del parto. A contendersela, il ginecologo di guardia all’ospedale e il ginecologo di fiducia (privato) della signora. Al di là degli aspetti deontologici (due medici che si azzuffano durante la loro attività è un fatto da condannare a prescindere dal merito del litigio), la vicenda ha giustamente spostato il discorso sull’annosa questione dell’intramoenia e del conseguente, spesso poco limpido, intreccio che si viene a creare nelle corsie tra lavoro pubblico e privato dei medici.
La questione solleva da sempre polemiche e divide sia il mondo medico che quello politico tra i fautori del mantenimento di questa prerogativa dei medici (gli unici pubblici dipendenti ad avere il diritto di esercitare la loro professione anche in forma privata) e chi vorrebbe invece abolire questa possibilità.
Di ragioni ne hanno gli uni e gli altri. Anche se a prevalere, da parte di entrambi gli schieramenti, mi sembra persista una forte ipocrisia ideologica, ma anche di comportamento.
Mi spiego. La tesi principale portata avanti da chi vorrebbe abolire l’intramoenia è che con essa si legalizzerebbe una lista d’attesa preferenziale per i pazienti solventi, a discapito di chi non può permettersi di pagare di tasca propria.
Vero. Ma se questo vale in assoluto, allora dovremmo vietare qualsiasi forma di sanità privata in base allo stesso principio di uguaglianza di accesso e trattamento.
Che differenza c’è, infatti, dal punto di vista “etico” tra un paziente solvente che si rivolge a un’azienda ospedaliera del Ssn e un altro paziente che si rivolge a una clinica privata? In ambedue i casi c’è il riconoscimento del diritto del cittadino (un diritto limitato evidentemente a chi se lo può permettere) di scegliersi medico e ospedale che preferisce.
Quindi, o aboliamo qualsiasi sanità privata oppure si finisce col discriminare la possibilità delle aziende ospedaliere del Ssn di valorizzare i loro medici e i loro reparti più prestigiosi o comunque più richiesti dai pazienti. E questo senza eliminare l’ovvia disparità di accesso alle cure tra chi paga e chi non può permetterselo, che resterebbe intatta nel settore della sanità privata. Del resto se non potessi scegliere il medico e concordare con lui i tempi dell’intervento, perché mai dovrei pagare?
E ancora. Per non restare nel vago e porre un esempio concreto di contraddizione tra idee e fatti, guardiamo a cosa accade nel prestigioso Istituto Europeo di Oncologia del Professor Veronesi, strenuo ideologo della netta separazione tra attività pubblica e privata. Ebbene nell’ospedale di Veronesi, che è privato ma convenzionato con il Ssn, vige in piccolo la stessa realtà intramoenia del Ssn e infatti i pazienti che vi si rivolgono possono mettersi in lista d’attesa nei reparti convenzionati e gratuiti, dove l’attesa è ovviamente lunga, oppure, pagando direttamente, accedere ai reparti solventi dove, oltre al fatto di avere camera singola e altri piccoli comfort, hanno la possibilità di scegliersi il chirurgo con tempi di attesa molto più brevi rispetto ai reparti convenzionati.
Insomma la materia è alquanto ingarbugliata e a mio avviso serve a poco continuare a discettare sul sì o il no all’intramoenia. Se il problema è invece la trasparenza del rapporto tra l’attività pubblica e quella privata di un medico, esistono già norme che prevedono regole molto chiare e anti abusi. Sono state votate in modo bipartisan nel luglio 2007, innovando la vecchia e superata “legge Bindi”. E allora, forse, prima di pensare a nuove norme, non sarebbe il caso di far applicare subito quelle già esistenti?

08 settembre 2010
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